lunedì 10 febbraio 2014

PER UNA SERIA RIFLESSIONE SULLO STATO DELLA SOCIOLOGIA ITALIANA / 2


Mi spiace dover rispondere alle infondate critiche di Bianco, Giovannini, Marradi, Rositi, Sciolla e Sgritta, per alcuni dei quali ho grande stima. Ma il loro commento al mio intervento richiede delle doverose precisazioni.
Io mi ero limitato a sottolineare il forte isomorfismo tra i risultati della recente ASN e quelli dei due esercizi di valutazione delle ricerca, il CIVR per gli anni 2000-2003 e la VQR per gli anni 2004-2010. Ragionando sempre sui grandi numeri (l’unico modo di non cadere nella polemica “pro domo mea”), da tutti e tre le procedure risultano significative differenze tra le aree disciplinari e le sedi universitarie in cui lavorano i sociologi italiani. Nei libri gialli si suole dire che tre indizi fanno una prova. Se così fosse, sarebbe lecito sostenere che nell’ultimo decennio la qualità della ricerca è mediamente migliore nella sociologia economica che nella sociologia generale[1] e nei dipartimenti dell’Italia settentrionale piuttosto che in quelli dell’Italia centro-meridionale. Naturalmente, sempre nel quadro di un risultato complessivo “non molto brillante” (come recita un po’ eufemisticamente il rapporto del GEV14 della VQR) a causa della perdurante situazione di “arretratezza e provincialismo delle scienze sociali e politiche italiane”, quale è testimoniato da “scarso numero di pubblicazioni in inglese e scarsa presenza di articoli e in particolare di articoli pubblicati in riviste internazionali” (come recitava il rapporto del panel 14 del CIVR).
Mi si può obiettare che il parere del CIVR è stato scritto da uno dei maggiori sociologi europei e da un sociologo italiano che insegna in una prestigiosa università americana, ma gli esiti della VQR sono frutto di una sostanziale auto-valutazione da parte dei sociologi italiani. Infatti hanno fatto da referee quasi 250 sociologi accademici italiani (tra cui quattro dei miei critici) e oltre 80 sociologi che lavorano in università straniere, ma con frequenti rapporti di studio e ricerca con colleghi italiani. Il fatto è che tutti costoro hanno dovuto seguire le le linee guida dettate dall’ANVUR per tutte le discipline scientifiche, una delle quali era di valutare il livello di internazionalizzazione dei prodotti. Se ho letto bene, anche tutti i 15 membri delle tre commissioni di sociologia hanno fatto riferimento non secondario alla presenza internazionale per giudicare i candidati.

Ci si doveva aspettare che tale criterio entrasse nei processi di valutazione, una volta che questi fossero liberati dal patronage a lungo esercitato dalle due correnti organizzate? Ovviamente si, perché questa è la tendenza universale in tutti i campi della conoscenza. Ma, dicono i miei critici, internazionalizzazione vuole anche dire omogeneizzazione e perdita di spirito critico? Basta avere una minima conoscenza delle pubblicazioni sociologiche in lingua inglese per rispondere con una risata a questa obiezione. Michael Burawoy e Eric Olin Wright, sociologi dichiaratamente marxisti, sono stati recentemente presidenti dell’American Sociological Association (dove le cariche non si acquisiscono per meriti correntizi) e Bourdieu è molto più conosciuto negli Stati Uniti che in Italia. Anche in lingua inglese, la sociologia ha conservato la pluralità dei paradigmi che ne fa la sua forza, ma anche la sua debolezza. E in inglese si trovano riviste sociologiche di tutte le tendenze. Quando si parla di standard internazionale non si fa riferimento ad alcuno dei diversi paradigmi sociologici, ma alla qualità del lavoro scientifico, che può essere buona o cattiva sia per un’indagine etnografica sia per un’analisi fondata su modelli statistici, sia per una ricostruzione di un concetto o di una teoria.

D’altronde, per la sociologia il panel 14 del Civr aveva chiaramente indicato la via da seguire: meno articoletti in riviste semi-sconosciute (anche se spesso di classe A per l’AIS) e meno capitoletti in volumi stampati da editori locali o comunque a pagamento, ma più pubblicazioni in riviste internazionali. Alcuni dipartimenti questa strada l’hanno perseguita da oltre 10 anni. Mi dispiace dover citare me stesso, ma l’aneddoto mi sembra calzante. Quando a fine anni Novanta sono diventato direttore del Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano Bicocca ho respinto le (forti) pressioni per continuare a pubblicare Papers del Dipartimento o per finanziare la pubblicazione di volumi in italiano di giovani studiosi, neo-dottori o neo-ricercatori. Invece, ho previsto che fosse costituito un fondo (destinato in via preliminare ai più giovani) per finanziare la traduzione o la revisione di articoli da inviare a riviste sociologiche internazionali. Il costo non è stato superiore, ma il risultato mi sembra sia stato migliore. Se anche altri dipartimenti avessero fatto questa scelta nei loro bilanci, senza spendere di più, probabilmente avrebbero ottenuto migliori risultati (oltre a risparmiare quintali di carta che pochi avranno letto, come risulta da Publish or Perish).

E qui occorre dire qualcosa ad altri critici che narrano delle gravi difficoltà di pubblicare in riviste di livello elevato. Lasciamo perdere quelle italiane, per cui anche tra quelle classificate in fascia A per l’ASN solo poche fanno un serio lavoro di revisione e scartano degli articoli, sicché non si vede come vi siano delle difficoltà. Ma guardiamo a quelle internazionali presenti in ISI o Scopus anche non al top del ranking. Pubblicare in queste riviste è allo stesso tempo molto facile e molto difficile. Molto facile perché ormai da anni basta imbucare un pdf nel sito internet della rivista e si è sicuri che il paper sarà esaminato dalla redazione senza alcun pregiudizio, anche se l’autore è un perfetto sconosciuto e proviene dalla più marginale delle università del mondo. Il difficile viene dopo. Infatti, se supera un primo veloce screening, l’articolo viene sottoposto a un minuzioso e invadente processo di revisione da parte di 2-3 anonymous referees, che dura almeno un anno e spesso può durare anche due anni[2]. Tra parentesi, va detto che la stessa procedura è seguita anche dalle più serie riviste in francese e in spagnolo, anche se i tempi sono meno lunghi. Chi sostiene che un volume in italiano comporta una maggiore fatica che un articolo in una seria rivista internazionale non ha mai fatto questa dura esperienza, che comunque migliora e garantisce la qualità dell’articolo.  

Un’ultima osservazione non ha nulla a che fare con la risposta alle critiche che mi sono state fatte, ma devo farla perché mi è stata fatta da alcuni colleghi che insegnano in università straniere. Questi colleghi sono rimasti stupiti dalla grande quantità di pubblicazioni dei sociologi italiani che per lo più si accompagnava a un basso livello di qualità scientifica. In altri paesi si scrive molto meno, ma il livello medio delle pubblicazioni è più elevato e soprattutto si mira ad alcune pubblicazioni che siano valutabili come eccellenti. In alcuni processi di selezione nelle università americane non si chiede tanto una lunga lista di pubblicazioni, ma di presentare le 3-5 considerate migliori. Tutto il contrario di quanto avviene in Italia, ove impazzano le mediane. Insomma, meno quantità e più qualità.

Per finire, il compito dei sociologi più anziani non dovrebbe essere quello di delegittimare i processi di valutazione (che sono ovviamente sempre perfettibili), né quello di giustificare le tradizionali debolezze delle modalità con cui tradizionalmente in Italia si fa ricerca e si pubblica in sociologia. Ma quello di indicare vie e modi per migliorare, anche tenendo conto dei processi di innovazione e di internazionalizzazione in corso nelle altre discipline sociali, non soltanto economia[3], ma anche psicologia, scienza politica e filosofia politica, per non parlare delle crescenti relazioni con le scienze comportamentali e biologiche. Processi dai quali la sociologia italiana rischia di essere esclusa.        

Post scriptum per l’AIS

1. Nel sito AIS la pubblicazione del mio precedente intervento, che presentava molte informazioni sull’esito della VQR, è stata rinviata di qualche giorno. Poiché a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina, si potrebbe supporre che il rinvio servisse ad attendere altri interventi o news, sicché questo intervento non è mai comparso nella front page del sito ed è rapidamente finito nei piccoli caratteri e nelle pagine successive del Forum. Un caso di raffinata“disinformazia”?.

2. Non sono perfettamente sicuro, ma non mi risulta che sia mai stata pubblicata nel sito AIS la relazione sui prodotti dei sociologi italiani nella VQR presentata al convegno di Firenze da Brigida Blasi, bravissima research assistant del GEV 14. Se così fosse, la allego con l’invito a renderla nota a tutti.

 

Emilio Reyneri







[1] Tra parentesi dovrebbe sorgere il dubbio che i migliori risultati della sociologia economica si debbano anche al fatto che questa area non è stata devastata dai perversi criteri di cooptazione praticati dalle due note cordate accademiche organizzate, come testimoniano i siti web: http://www.sociologiaperlapersona.it/ per SPE e http://www.vocesociologica.it/ per AIStre. Credo si tratti di un caso unico nelle discipline scientifiche in tutto il mondo, poiché ben diverso è il caso delle scuole di pensiero, presenti in molte aree umanistiche
[2]  Anche qui mi sia concessa una digressione personale. Quando, parecchi anni, fa ho fatto la prima review per una rivista internazionale ho scritto una decina di righe, non ricordo se per accettare o rifiutare l’articolo. Poi ho visto quanto avevano scritto gli altri due referees e da allora dedico 2-4 pagine di commento a ogni articolo che mi viene sottoposto, in particolare se suppongo che gli autori siano giovani sociologi, per aiutarli a migliorare il loro lavoro. Così faccio anche per le ben poche riviste italiane che mi chiedono un referaggio.

[3] Per rispondere all’accusa di sudditanza verso la “triste scienza”, che abbandonai dopo la laurea, non posso che rinviare a un mio capitolo pubblicato in un noto manuale di economia del lavoro. Qui il discorso sarebbe troppo lungo e poco interessante per i lettori. Debbo però dire che confrontarsi quasi quotidianamente con un’altra disciplina aiuta a comprendere i punti di forza e di debolezza della sociologia, come non accade per molti sociologi generali chiusi nella loro “centralità”, così come viene rivendicata dai miei critici.


1 commento:

  1. Caro Prof. Reyneri,

    ma di coloro che le cose di cui parla le hanno fatte in abbondanza e sono stati comunque bocciati, ne vogliamo parlare o no? Oppure vogliamo continuare a liquidarle come "vittime fisiologiche" di un complicato processo di selezione, etc. etc.?

    L'ostinazione con cui una parte della sociologia italiana (guarda caso, quella vincente; e non importa che lei non concorresse) continua ad analizzare la vicenda -- come se questa avesse tratti prevalentemente o unicamente scientifici -- lascia davvero basiti.

    Una serena osservazione dei curricula -- vale la pena ripeterlo ad libitum -- mostra che la "scienza" in quanto tale è contata pochissimo in questa selezione. Se fossero davvero contate solo le sedi editoriali o l'internazionalizzazione dei candidati, avremmo avuto risultati ben diversi. Non se molto più ampi in termini di abilitati; ma certamente diversi.

    Ed è su questo "altro dalla scienza" che incontriamo il rifiuto ostinato di un confronto. Ma fintanto che continuerete così non potrete aspettarvi che vi si prenda sul serio.

    Il nodo, lo ripeto per l'ennesima volta, è politico. E investe sia il fronte interno alla disciplina (cosa questa commissione intendeva fare) che quello più generale (relativo a quale modello di università prospettare e a quali criteri di reclutamento adoperare).

    In termini più diretti, la certezza di molti tra i non abilitati -- e probabilmente anche di molti abilitati onesti e avvezzi alle cose di questo nostro mondo -- è che l'attuale modalità di selezione costituisce la più perfetta continuità con il passato. E quelli che lo negano non appaiono molto credibili (tanto più che coloro che supportano questa modalità hanno di solito una storia alle spalle, difficile da dimenticare e negare. E non che gli altri non l'abbiano; ma sono certamente più onesti dei primi e non ne nascondono il peso e l'eredità).

    Probabilmente dovremmo limitarci a prendere atto della situazione: il campo della disciplina è ancora una volta diviso -- bipartito, anziché tripartito -- e non vi è alcuna possibilità di ricomporlo.

    Temo che sia da questo assunto che qualsiasi dialettica interna alla disciplina dovrà ripartire, comprendendo che tale divisione ha oggi caratteri vistosamente territoriali. E tenendo presente anche che questa territorializzazione non ha alcuno dei tratti che si ama evidenziare con formule anodine: non è, insomma, la storia di un nord scientificamente sviluppato contro un sud depresso. Si tratta, più prosaicamente, della "leghizzazione" dell'università e dell'adesione di molti suoi membri -- certamente di quelli che occupano posizioni di vantaggio -- alle categorie di quella doxa intimamente "razzista" che pervade i rapporti nazionali in materia economica e politica. Quella stessa doxa che gli intellettuali di questo paese avrebbero dovuto destrutturare e a cui hanno invece finito col sottomettersi in gran numero.

    Questa nuova separazione, va chiarito, non supera i classici elementi di divisione (quelli, in primo luogo, ideologici, confessionali e metodologici) ma si sovrappone ad essi, diventando però di gran lunga più importante, anche nei termini dei suoi effetti materiali (come vedremo da qui a poco; quando, cioè, i posti dovranno essere messi a concorso).

    Ad ogni modo, il messaggio che vorrei lanciare è quello per cui se i vincenti sono giocati dalla doxa prevalente, non è bene attendersi che lo siano anche gli altri. Oppure che noi, i "perdenti, accettiamo supinamente di soggiacere a una certa ricostruzione della verità, con i suoi armamentari tecnici e retorici. Non vi seguiremo mai su quel piano, perché esso non ha nulla a che fare con la complessità della questione in gioco e non ci stancheremo di ripeterlo.

    La lotta continua...

    Cordiali saluti,

    Pietro Saitta, Università di Messina

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