Mi spiace dover rispondere alle infondate critiche di Bianco,
Giovannini, Marradi, Rositi, Sciolla e Sgritta, per alcuni dei quali ho grande
stima. Ma il loro commento al mio intervento richiede delle doverose
precisazioni.
Io
mi ero limitato a sottolineare il forte isomorfismo tra i risultati della
recente ASN e quelli dei due esercizi di valutazione delle ricerca, il CIVR per
gli anni 2000-2003 e la VQR per gli anni 2004-2010. Ragionando sempre sui
grandi numeri (l’unico modo di non cadere nella polemica “pro domo mea”), da
tutti e tre le procedure risultano significative differenze tra le aree
disciplinari e le sedi universitarie in cui lavorano i sociologi italiani. Nei
libri gialli si suole dire che tre indizi fanno una prova. Se così fosse,
sarebbe lecito sostenere che nell’ultimo decennio la qualità della ricerca è
mediamente migliore nella sociologia economica che nella sociologia generale[1]
e nei dipartimenti dell’Italia settentrionale piuttosto che in quelli
dell’Italia centro-meridionale. Naturalmente, sempre nel quadro di un risultato
complessivo “non molto brillante” (come recita un po’ eufemisticamente il
rapporto del GEV14 della VQR) a causa della perdurante situazione di
“arretratezza e provincialismo delle scienze sociali e politiche italiane”,
quale è testimoniato da “scarso numero di pubblicazioni in inglese e scarsa
presenza di articoli e in particolare di articoli pubblicati in riviste
internazionali” (come recitava il rapporto del panel 14 del CIVR).
Mi
si può obiettare che il parere del CIVR è stato scritto da uno dei maggiori
sociologi europei e da un sociologo italiano che insegna in una prestigiosa
università americana, ma gli esiti della VQR sono frutto di una sostanziale
auto-valutazione da parte dei sociologi italiani. Infatti hanno fatto da referee quasi 250 sociologi accademici
italiani (tra cui quattro dei miei critici) e oltre 80 sociologi che lavorano in
università straniere, ma con frequenti rapporti di studio e ricerca con
colleghi italiani. Il fatto è che tutti costoro hanno dovuto seguire le le
linee guida dettate dall’ANVUR per tutte le discipline scientifiche, una delle
quali era di valutare il livello di internazionalizzazione dei prodotti. Se ho
letto bene, anche tutti i 15 membri delle tre commissioni di sociologia hanno
fatto riferimento non secondario alla presenza internazionale per giudicare i
candidati.
Ci si doveva aspettare che tale criterio entrasse
nei processi di valutazione, una volta che questi fossero liberati dal
patronage a lungo esercitato dalle due correnti organizzate? Ovviamente si,
perché questa è la tendenza universale in tutti i campi della conoscenza. Ma,
dicono i miei critici, internazionalizzazione vuole anche dire omogeneizzazione
e perdita di spirito critico? Basta avere una minima conoscenza delle
pubblicazioni sociologiche in lingua inglese per rispondere con una risata a
questa obiezione. Michael Burawoy e Eric Olin Wright, sociologi dichiaratamente
marxisti, sono stati recentemente presidenti dell’American Sociological
Association (dove le cariche non si acquisiscono per meriti correntizi) e Bourdieu
è molto più conosciuto negli Stati Uniti che in Italia. Anche in lingua
inglese, la sociologia ha conservato la pluralità dei paradigmi che ne fa la
sua forza, ma anche la sua debolezza. E in inglese si trovano riviste
sociologiche di tutte le tendenze. Quando si parla di standard internazionale
non si fa riferimento ad alcuno dei diversi paradigmi sociologici, ma alla
qualità del lavoro scientifico, che può essere buona o cattiva sia per
un’indagine etnografica sia per un’analisi fondata su modelli statistici, sia
per una ricostruzione di un concetto o di una teoria.
D’altronde, per la sociologia il panel 14 del Civr
aveva chiaramente indicato la via da seguire: meno articoletti in riviste
semi-sconosciute (anche se spesso di classe A per l’AIS) e meno capitoletti in
volumi stampati da editori locali o comunque a pagamento, ma più pubblicazioni
in riviste internazionali. Alcuni dipartimenti questa strada l’hanno perseguita
da oltre 10 anni. Mi dispiace dover citare me stesso, ma l’aneddoto mi sembra
calzante. Quando a fine anni Novanta sono diventato direttore del Dipartimento
di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano Bicocca ho respinto
le (forti) pressioni per continuare a pubblicare Papers del Dipartimento o per
finanziare la pubblicazione di volumi in italiano di giovani studiosi,
neo-dottori o neo-ricercatori. Invece, ho previsto che fosse costituito un
fondo (destinato in via preliminare ai più giovani) per finanziare la
traduzione o la revisione di articoli da inviare a riviste sociologiche
internazionali. Il costo non è stato superiore, ma il risultato mi sembra sia
stato migliore. Se anche altri dipartimenti avessero fatto questa scelta nei
loro bilanci, senza spendere di più, probabilmente avrebbero ottenuto migliori
risultati (oltre a risparmiare quintali di carta che pochi avranno letto, come
risulta da Publish or Perish).
E qui occorre dire qualcosa ad altri critici che narrano delle gravi difficoltà di pubblicare in
riviste di livello elevato. Lasciamo perdere quelle italiane, per cui anche tra
quelle classificate in fascia A per l’ASN solo poche fanno un serio lavoro di
revisione e scartano degli articoli, sicché non si vede come vi siano delle
difficoltà. Ma guardiamo a quelle internazionali presenti in ISI o Scopus anche
non al top del ranking. Pubblicare in queste riviste è allo stesso tempo molto
facile e molto difficile. Molto facile perché ormai da anni basta imbucare un
pdf nel sito internet della rivista e si è sicuri che il paper sarà esaminato
dalla redazione senza alcun pregiudizio, anche se l’autore è un perfetto
sconosciuto e proviene dalla più marginale delle università del mondo. Il
difficile viene dopo. Infatti, se supera un primo veloce screening, l’articolo viene sottoposto a un minuzioso e invadente
processo di revisione da parte di 2-3 anonymous
referees, che dura almeno un anno e spesso può durare anche due anni[2].
Tra parentesi, va detto che la stessa procedura è seguita anche dalle più serie
riviste in francese e in spagnolo, anche se i tempi sono meno lunghi. Chi
sostiene che un volume in italiano comporta una maggiore fatica che un articolo
in una seria rivista internazionale non ha mai fatto questa dura esperienza,
che comunque migliora e garantisce la qualità dell’articolo.
Un’ultima osservazione non ha nulla a che fare con
la risposta alle critiche che mi sono state fatte, ma devo farla perché mi è
stata fatta da alcuni colleghi che insegnano in università straniere. Questi
colleghi sono rimasti stupiti dalla grande quantità di pubblicazioni dei sociologi
italiani che per lo più si accompagnava a un basso livello di qualità
scientifica. In altri paesi si scrive molto meno, ma il livello medio delle
pubblicazioni è più elevato e soprattutto si mira ad alcune pubblicazioni che
siano valutabili come eccellenti. In alcuni processi di selezione nelle
università americane non si chiede tanto una lunga lista di pubblicazioni, ma
di presentare le 3-5 considerate migliori. Tutto il contrario di quanto avviene
in Italia, ove impazzano le mediane. Insomma, meno quantità e più qualità.
Per finire, il compito dei sociologi più anziani non
dovrebbe essere quello di delegittimare i processi di valutazione (che sono
ovviamente sempre perfettibili), né quello di giustificare le tradizionali
debolezze delle modalità con cui tradizionalmente in Italia si fa ricerca e si
pubblica in sociologia. Ma quello di indicare vie e modi per migliorare, anche
tenendo conto dei processi di innovazione e di internazionalizzazione in corso
nelle altre discipline sociali, non soltanto economia[3],
ma anche psicologia, scienza politica e filosofia politica, per non parlare
delle crescenti relazioni con le scienze comportamentali e biologiche. Processi
dai quali la sociologia italiana rischia di essere esclusa.
Post scriptum per l’AIS
1. Nel sito AIS la pubblicazione del mio precedente
intervento, che presentava molte informazioni sull’esito della VQR, è stata
rinviata di qualche giorno. Poiché a pensar male si fa peccato, ma spesso si
indovina, si potrebbe supporre che il rinvio servisse ad attendere altri
interventi o news, sicché questo intervento non è mai comparso nella front page
del sito ed è rapidamente finito nei piccoli caratteri e nelle pagine
successive del Forum. Un caso di raffinata“disinformazia”?.
2. Non sono perfettamente sicuro, ma non mi risulta
che sia mai stata pubblicata nel sito AIS la relazione sui prodotti dei
sociologi italiani nella VQR presentata al convegno di Firenze da Brigida Blasi,
bravissima research assistant del GEV 14. Se così fosse, la allego con l’invito a renderla nota a tutti.
Emilio Reyneri
[1] Tra parentesi dovrebbe sorgere il dubbio che i migliori
risultati della sociologia economica si debbano anche al fatto che questa area
non è stata devastata dai perversi criteri di cooptazione praticati dalle due
note cordate accademiche organizzate, come testimoniano i siti web: http://www.sociologiaperlapersona.it/ per SPE e http://www.vocesociologica.it/ per AIStre. Credo si tratti di un caso unico nelle
discipline scientifiche in tutto il mondo, poiché ben diverso è il caso delle
scuole di pensiero, presenti in molte aree umanistiche
[2] Anche qui
mi sia concessa una digressione personale. Quando, parecchi anni, fa ho fatto
la prima review per una rivista internazionale ho scritto una decina di righe,
non ricordo se per accettare o rifiutare l’articolo. Poi ho visto quanto
avevano scritto gli altri due referees e da allora dedico 2-4 pagine di
commento a ogni articolo che mi viene sottoposto, in particolare se suppongo
che gli autori siano giovani sociologi, per aiutarli a migliorare il loro
lavoro. Così faccio anche per le ben poche riviste italiane che mi chiedono un
referaggio.
Caro Prof. Reyneri,
RispondiEliminama di coloro che le cose di cui parla le hanno fatte in abbondanza e sono stati comunque bocciati, ne vogliamo parlare o no? Oppure vogliamo continuare a liquidarle come "vittime fisiologiche" di un complicato processo di selezione, etc. etc.?
L'ostinazione con cui una parte della sociologia italiana (guarda caso, quella vincente; e non importa che lei non concorresse) continua ad analizzare la vicenda -- come se questa avesse tratti prevalentemente o unicamente scientifici -- lascia davvero basiti.
Una serena osservazione dei curricula -- vale la pena ripeterlo ad libitum -- mostra che la "scienza" in quanto tale è contata pochissimo in questa selezione. Se fossero davvero contate solo le sedi editoriali o l'internazionalizzazione dei candidati, avremmo avuto risultati ben diversi. Non se molto più ampi in termini di abilitati; ma certamente diversi.
Ed è su questo "altro dalla scienza" che incontriamo il rifiuto ostinato di un confronto. Ma fintanto che continuerete così non potrete aspettarvi che vi si prenda sul serio.
Il nodo, lo ripeto per l'ennesima volta, è politico. E investe sia il fronte interno alla disciplina (cosa questa commissione intendeva fare) che quello più generale (relativo a quale modello di università prospettare e a quali criteri di reclutamento adoperare).
In termini più diretti, la certezza di molti tra i non abilitati -- e probabilmente anche di molti abilitati onesti e avvezzi alle cose di questo nostro mondo -- è che l'attuale modalità di selezione costituisce la più perfetta continuità con il passato. E quelli che lo negano non appaiono molto credibili (tanto più che coloro che supportano questa modalità hanno di solito una storia alle spalle, difficile da dimenticare e negare. E non che gli altri non l'abbiano; ma sono certamente più onesti dei primi e non ne nascondono il peso e l'eredità).
Probabilmente dovremmo limitarci a prendere atto della situazione: il campo della disciplina è ancora una volta diviso -- bipartito, anziché tripartito -- e non vi è alcuna possibilità di ricomporlo.
Temo che sia da questo assunto che qualsiasi dialettica interna alla disciplina dovrà ripartire, comprendendo che tale divisione ha oggi caratteri vistosamente territoriali. E tenendo presente anche che questa territorializzazione non ha alcuno dei tratti che si ama evidenziare con formule anodine: non è, insomma, la storia di un nord scientificamente sviluppato contro un sud depresso. Si tratta, più prosaicamente, della "leghizzazione" dell'università e dell'adesione di molti suoi membri -- certamente di quelli che occupano posizioni di vantaggio -- alle categorie di quella doxa intimamente "razzista" che pervade i rapporti nazionali in materia economica e politica. Quella stessa doxa che gli intellettuali di questo paese avrebbero dovuto destrutturare e a cui hanno invece finito col sottomettersi in gran numero.
Questa nuova separazione, va chiarito, non supera i classici elementi di divisione (quelli, in primo luogo, ideologici, confessionali e metodologici) ma si sovrappone ad essi, diventando però di gran lunga più importante, anche nei termini dei suoi effetti materiali (come vedremo da qui a poco; quando, cioè, i posti dovranno essere messi a concorso).
Ad ogni modo, il messaggio che vorrei lanciare è quello per cui se i vincenti sono giocati dalla doxa prevalente, non è bene attendersi che lo siano anche gli altri. Oppure che noi, i "perdenti, accettiamo supinamente di soggiacere a una certa ricostruzione della verità, con i suoi armamentari tecnici e retorici. Non vi seguiremo mai su quel piano, perché esso non ha nulla a che fare con la complessità della questione in gioco e non ci stancheremo di ripeterlo.
La lotta continua...
Cordiali saluti,
Pietro Saitta, Università di Messina