giovedì 30 gennaio 2014

SMOBILITARE IL RISENTIMENTO


In queste settimane abbiamo seguito con interesse, ma anche con crescente stupore, il dibattito che si è sviluppato all’interno della sociologia sui risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazione. Ci ha stupito, in primo luogo, la percentuale di abilitati nei settori 14/C1 e 14/D1; in secondo luogo, il clima che si è venuto a creare nella nostra comunità accademica, che sembra sull’“orlo di una crisi di nervi”. Questo post non intende proporre un’ulteriore analisi dei risultati della ASN. Il fine è piuttosto quello di contribuire a spostare il fuoco del dibattito verso una riflessione più pacata e propositiva, come anche altri – per fortuna - hanno iniziato a fare (sia su questo sito sia su quello dell’Ais).
Sappiamo di trovarci in una posizione particolare, non essendo in commissione né tra i candidati all’abilitazione dei settori in discussione. Questo, naturalmente, non ci conferisce alcun punto di osservazione privilegiato, ma solamente un pizzico di distacco emotivo in più, che ci induce a puntare il dito non tanto verso il comportamento delle commissioni, quanto verso le norme che regolano l’abilitazione.
Inizieremo facendo un passo indietro – discutendo tre punti che ci hanno colpito nel dibattito sui risultati dell’ASN - per farne poi uno in avanti, in direzione della normativa.
1) Il numero di abilitati nei settori sociologici. Inutile girarci intorno, in entrambi i settori sociologici di cui sono stati pubblicati i risultati, le percentuali di abilitati risultano piuttosto contenute. In uno dei due (il 14/C1) sono molto basse. Basse rispetto a cosa?  Alla media di tutti gli altri settori concorsuali, così come alla media delle altre aree delle scienze umane e sociali (10-14) e alla quasi totalità dei settori a noi più vicini (politici, economici ecc.). Assumendo come termine di riferimento le aree “non bibliometriche”, per la prima fascia, il differenziale negativo dei nostri due settori (valore medio) oscilla tra un minimo del 9% (area 11) e un massimo del 26% (area 10). Va anche però aggiunto, che le “commissioni severe” non sono una prerogativa esclusiva della sociologia e che in tutte le aree (bibliometriche e non) si nota una forte variabilità interna nelle percentuali di abilitati. Per la prima fascia il campo di variazione spazia dal 12% all’83%! Nei settori delle scienze umane e sociali il range si restringe di poco: dal 12% al 69%.

Tutto ciò detto, che spiegazioni possiamo dare del comportamento delle commissioni sociologiche? Nel dibattito ci pare emergano due interpretazioni prevalenti. La prima attribuisce la variabilità dei risultati – con particolare riferimento alla deludente prestazione del settore 14/C1 – alla “eterogeneità non osservata”. Ovvero alla diversità (qualitativa) dei candidati presenti nei vari settori concorsuali. Questa tesi, per i nostri due settori, è avvalorata dai dati della VQR. Facciamo notare, per inciso, che sia l’ASN sia la VQR, in quanto esercizi di peer review, in ultima analisi non sono indicatori di un valore “oggettivo” della produzione scientifica, ma della relazione che c’è tra le aspettative dei valutatori e la loro percezione di qualità. L’aspetto interessante, qui, è che esiste una corrispondenza di qualche tipo tra i due processi, cioè che il comportamento delle commissioni non risulta anomalo rispetto al comportamento che l’intera comunità scientifica ha avuto verso se stessa in sede di VQR.
La seconda interpretazione, al contrario, attribuisce la suddetta variabilità quasi esclusivamente al diverso metro di giudizio usato dalle commissioni, e da alcuni commissari in particolare. Anche questa tesi non appare infondata. Come dicevamo sopra, sia guardando all’intera ASN, sia alle aree delle scienze umane e sociali, salta agli occhi che alcune commissioni sono state molto “strette” nel concedere le abilitazioni. Altre, invece, sono state molto più “generose”. Dubitiamo che queste variazioni possano essere interamente attribuite alla diversa qualità delle “popolazioni di riferimento”. Questo non dovrebbe stupirci. Sarebbe ingenuo pensare che avere riferimenti normativi comuni (tra le commissioni) e criteri comuni per la valutazione delle pubblicazioni e dei titoli (all’interno delle commissioni) elimini del tutto una diversa interpretazione (e applicazione) delle “regole del gioco”. In altre parole, che rimuova completamente la soggettività dei giudizi.
A chi non è offuscato da pregiudizi (pro o contro le commissioni) non dovrebbe dunque sfuggire che entrambe le interpretazioni avanzate nel dibattito sono del tutto compatibili tra loro. Sono, anzi, complementari. Entrambe contribuiscono a spiegare una parte della varianza registrata nei risultati dei vari settori. Ma qui torniamo al punto di partenza. Come dicevamo, l’esito dell’ASN nei settori sociologici è stato sorprendente. Soprattutto alla luce delle attese della vigilia, quando si riteneva che l’assenza di un tetto alle abilitazioni potesse determinare giochi collusivi (a somma positiva) tra i vari commissari, portando ad un’abilitazione di massa. Perché non è andata così?
Non abbiamo ancora letto risposte convincenti nel dibattito in corso. Né ne abbiamo noi da dare. L’idea che ci siamo fatti – in parte tautologica – è che nelle commissioni sia prevalsa la convinzione che la sociologia italiana avesse bisogno di rendere più rigorosi i propri criteri valutativi, anche al fine di promuovere (nel tempo) un innalzamento della qualità dei propri percorsi formativi e di carriera. Il monitoraggio reciproco - tra commissari e commissioni - ha poi teso a far prevalere questo atteggiamento, seppure con variazioni anche significative. Dire ciò, naturalmente, non implica affatto che non siano stati commessi errori nelle valutazioni dei singoli candidati (in buona o in cattiva fede). Abbiamo chiaramente presenti casi di colleghi che – con nostra sorpresa – non hanno ottenuto l’abilitazione.
L’altra idea che – ci pare – sia circolata è quella che fosse opportuno tenere un comportamento responsabile verso le “generazioni future”. Evitando gli errori commessi in passato, quando il reclutamento ad ondate ha penalizzato non poco chi veniva dopo: tutti quelli non nati (o non candidati) negli “anni giusti”. A questo proposito meritano attenzione i dati riportati da Davide Borrelli (sul sito Ais) sulle cessazioni di servizio, per raggiunti limiti di età, previste nei prossimi anni. Considerando i pensionamenti programmati entro il dicembre 2016 e il numero di abilitati nei settori sociologici, secondo i calcoli fatti da Borrelli il tasso di sostituzione (dei pensionamenti) sarebbe pari allo 0,81 nel settore 14/C1 e all’1,01 nel 14/D1. Tenendo conto che si tratta della prima tornata abilitativa, questi dati non dovrebbero suscitare preoccupazione. Anzi denotano un marcato senso di responsabilità da parte delle commissioni. Borrelli tuttavia fa osservare che in altri settori il tasso di sostituzione è decisamente superiore, arrivando fino ad un massimo di 26. In altre parole – se il suo ragionamento è corretto – per ogni pensionamento previsto da qui al 2016 ci sono 26 neo-abilitati pronti a rimpiazzarlo. Borrelli conclude dicendo che questa vicenda evidenzia lo spirito di “auto-punizione” che affligge la sociologia italiana, poiché le cifre sopra indicate sono destinate a cambiare gli equilibri tra le varie discipline destinando la nostra comunità accademica ad una “progressiva autoestinzione”.
Ma davvero questi dati suggeriscono queste conclusioni? Noi crediamo di no. Per due motivi. Il primo è che a stabilire il reclutamento effettivo degli abilitati saranno poi le chiamate e i concorsi locali. Non è perciò detto che tutti gli abilitati vedranno soddisfatte le loro (pur legittime) aspettative. E tuttavia è innegabile che i settori con molti abilitati eserciteranno una forte pressione a livello locale. Il secondo motivo per cui l’argomentazione di Borrelli non ci convince è che questi dati evidenziano, non tanto un difetto di comportamento nelle nostre commissioni, ma un problema macroscopico della normativa vigente. Proprio tenendo conto dei posti disponibili nei prossimi anni (per pensionamento), chi si è comportato correttamente: le “severe” commissioni sociologiche oppure le “generose” commissioni di altri settori? La risposta che ci diamo è che una normativa che consente una variabilità così ampia nell’esito delle abilitazioni (come quella registrata in questa prima tornata)  e che rischia di premiare i comportamenti opportunistici (da parte di eventuali “commissioni lassiste”) contiene un vizio regolativo di fondo. Su questo torneremo più avanti.
2) “Nordisti” contro “sudisti”? Tra le molte stravaganze che abbiamo sentito circolare in queste settimane, quella che più ci ha colpito è la tesi (complottista) che i commissari del Nord abbiano inteso colpire i candidati del Sud per affossare la sociologia nel Mezzogiorno. Si tratta, secondo noi, di una sciocchezza che non meriterebbe alcun commento. E tuttavia molti post che abbiamo letto si sono concentrati su una presunta mancanza di “equità” nei confronti dei candidati del Sud. Sia chiaro, non neghiamo che un problema esista, e che questa ASN l’abbia reso palese. Ma non è un problema che possa essere imputato a come le commissioni hanno agito. Che cosa avrebbero dovuto fare i commissari, usare criteri diversi a seconda dell’area geografica di provenienza dei candidati? Applicarli in maniera differenziata? Questo avrebbe significato svolgere un ruolo che non compete ai commissari; assolvere cioè una funzione di supplenza nei confronti di una seria politica della formazione e della ricerca che tenga conto anche delle differenze (e degli eventuali handicap) derivanti dalla collocazione territoriale delle Università. La loro decisione di tenere l’asticella particolarmente alta ha tutt’al più contribuito a evidenziare l’esistenza di un divide geografico. Valutare le cause di questa “divisione territoriale” nella sociologia italiana, i vincoli che probabilmente intralciano al Sud la produttività anche degli studiosi più capaci, e quali azioni debbano essere intraprese in futuro per superare questa anomalia: tutto questo è una questione che merita una seria riflessione autocritica da parte di tutta la nostra comunità accademica, senza artificiose contrapposizioni territoriali. In particolar modo l’AIS ci sembra debba farsi carico di un compito di questo tipo.
3) La mobilitazione del risentimento. Due parole, infine, sul dibattito che si è sviluppato sull’ASN. Ne vediamo un lato positivo e uno decisamente negativo. Il primo è facilmente immaginabile: la pubblicazione online di tutti i giudizi dei commissari e la disponibilità dei CV dei candidati agevolano la “trasparenza” della valutazione. Il dibattito in corso, quindi, può aiutare a chiarire i parametri e i criteri utilizzati dalle commissioni e consente di segnalare errori e anomalie, presunte o reali. Bene quindi. E tuttavia c’è un lato anche meno positivo. Il clima accesso delle recriminazioni, la messa in moto immediata della “macchina dei ricorsi collettivi”, l’individuazione dei commissari buoni e di quelli cattivi non ci convince affatto. Lo troviamo anzi inquietante. Ci chiediamo, ci aiuta a fare passi avanti nel radicamento di una cultura “fair” della valutazione? Al di là delle migliori intenzioni dei singoli, non stiamo creando un clima da caccia alle streghe che avrà effetti peggiori del male che intende curare? Non rischiamo di delegittimare l’intero meccanismo? Chi avrà, in futuro, il “coraggio professionale e civile” (a meno di non avere corposi interessi in gioco) di candidarsi nelle commissioni nazionali, sapendo che dovrà esporsi ad un simile trattamento? Su questo punto ci sia consentita anche una critica all’Ais. Possibile che il direttivo, nella sua nota (di cui pure apprezziamo l’intenzione di fondo), non abbia speso neppure una parola di ringraziamento per l’enorme mole di lavoro svolto dalle commissioni? Ciò nulla avrebbe tolto alle critiche avanzate nei loro confronti.
Veniamo dunque alla parte conclusiva e più propositiva di questo post. Alla luce della prima tornata di abilitazioni, ci sono alcune cose che continuano a convincerci nella procedura avviata dalla L 240 e che rappresentano un passo avanti rispetto al passato.
In primo luogo, l’esistenza di un livello nazionale di valutazione dei candidati. Questo fa sì che i meccanismi di reclutamento e le progressioni di carriera siano sottratte ad una logica angusta di localismo e fedeltà personale nei confronti degli ordinari di riferimento. Questo livello nazionale va ripensato, ma va anche difeso, poiché insieme alla VQR ha messo in moto un parziale processo di disaccoppiamento tra il controllo dei percorsi di carriera e le posizioni di potere all’interno delle “tre componenti”, indebolendone i meccanismi di riproduzione (o perlomeno rendendoli più complicati). Altri aspetti che troviamo convincenti – e su cui non ci dilunghiamo – sono l’utilizzo degli indicatori di impatto della produzione scientifica e l’enfasi posta sulla internazionalizzazione (anche se le loro modalità di impiego andranno chiarite e precisate meglio).
Ci sono invece altri aspetti della normativa che si sono dimostrati inadeguati e che richiedono un correttivo. Ci limitiamo a segnalare alcuni punti (alcuni già menzionati anche in altri contributi).
1) Troppi candidati per pochi commissari. Da un lato questo porta a giudizi frettolosi, dall’altro conferisce troppa importanza al caso (il meccanismo del sorteggio). Gli inevitabili bias individuali di sole cinque persone, infatti, finiscono per avere effetti amplificati sull'intera comunità scientifica di riferimento. Moltiplicare le commissioni, parametrandole sul numero dei candidati e assicurando che tutti i SSD siano rappresentati, ridurrebbe entrambi questi problemi. Lo stesso farebbe la separazione delle commissioni per l’abilitazione di prima e seconda fascia.
2) Troppa variabilità nei comportamenti delle commissioni. Questo – a nostro avviso – è il punto più delicato. Senza la previsione di qualche tetto al numero delle abilitazioni, i settori concorsuali che sposano una politica della “manica larga” possono inondare le università di abilitati, creando una pressione verso il reclutamento che mette in difficoltà i settori con un comportamento valutativo più rigoroso. Perché dunque non ancorare le abilitazioni ai pensionamenti previsti e al piano triennale per la programmazione e il reclutamento del personale imposto agli atenei dalla L. 240/2010? La presenza di un tetto esterno annullerebbe la discrezionalità delle varie commissioni su questo aspetto strategico. Ci rendiamo conto che ciò significherebbe “contaminare” il giudizio di abilitazione con una logica diversa, basata su una valutazione comparativa. Ma quali sono le contro-indicazioni nel farlo? Ne uscirebbe semplificata anche la procedura di secondo livello, quella della chiamata locale dei professori, che dovrebbe rimanere ancorata ad una valutazione comparativa di candidati, finalizzata a garantire il matching tra le richieste dei vari atenei e le competenze dei vari candidati.
3) Tornare ad una “maggioranza semplice”. Qualora fosse posto un tetto alle abilitazioni, il vincolo per le commissioni di prendere le decisioni a maggioranza qualificata (4 voti favorevoli su 5) diverrebbe superfluo. La sua ratio, infatti, era volta ad ostacolare una “deriva alluvionale” delle abilitazioni, richiedendo ai commissari una quasi unanimità di giudizio sugli idonei.
Un ultimo punto su cui la nota del direttivo Ais ci invita a riflettere sono i  meccanismi di formazione delle commissioni. Noi siamo per mantenere inalterati quelli in vigore. Vi scorgiamo due vantaggi. Il primo è che assicurano una qualificazione scientifica dei commissari almeno paragonabile a quella richiesta ai candidati per l’abilitazione di prima fascia. Il secondo vantaggio è che il meccanismo del sorteggio orienta le aspettative dei candidati verso lo “scenario peggiore” (il migliore per la comunità accademica nel suo complesso): una commissione composta da docenti qualificati, non conosciuti personalmente. Ciò li dovrebbe spronare a qualificare il proprio curriculum, anziché a coltivare le relazioni personali e di componente. Ci lascia invece perplessi – perché non ne capiamo appieno il significato – la proposta del direttivo Ais di “individuare nuovi meccanismi per la formazione delle commissioni, attribuendo alle comunità disciplinari la possibilità di definire l’universo dei commissari sorteggiabili, tra quanti superano il filtro delle mediane”. Temiamo infatti che ciò apra un varco pericoloso nella procedura, che può riconsegnare la formazione delle commissioni al controllo delle componenti e alle logiche spartitorie del passato.

Dobbiamo lavorare perché si crei una nuova solidarietà nella nostra comunità, basata sulla stabilizzazione dei criteri di merito, sulla costruzione di una nuova fiducia reciproca, sull’affermarsi di una “classe dirigente” e di organi di rappresentanza qualificati per promuovere l’interesse collettivo.
Noi crediamo che continuare ad ampliare la frattura tra il risentimento dei non abilitati (e dei loro “referenti” di prima fascia) e l’irritazione di coloro che vogliono elevare gli standard della sociologia in Italia non faccia del bene al futuro della nostra disciplina. Chiediamo quindi lo sforzo di tutti per spostare il dibattito dal piano della “colpa” (accusa/difesa) a quello della progettualità, dove vi possono naturalmente essere posizioni diverse (e quindi, appunto, un dibattito), ma dove valori e interessi collettivi possano meglio depurarsi dalle dinamiche degli interessi individuali. E’ necessario creare fattivamente situazioni di incontro, in gruppi di discussione eterogenei, per uscire dal vortice creato, non da ultimo, dal linguaggio di Internet, così versato alla semplificazione e alla radicalizzazione dei concetti. A questo riguardo approviamo l’intenzione, annunciata dal direttivo AIS, di promuovere gruppi di lavoro e di confronto sul tema della valutazione.

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