Devo dire che la lettura del
documento di Bianco & C. e di diversi dei commenti alle osservazioni di
Chiesi e di Barbera e Santoro mi lascia abbastanza costernato. E non perché i risultati
del concorso suscitano scontento, ma per il tipo di obiezioni sollevate. E’ già
stato detto molto e spero di non farla troppo lunga. Può darsi inoltre che, essendo tra gli abilitati, anch’io sconti
un bias favorevole alla commissione. Giudichi chi legge.
La commissione viene in sostanza
accusata non di aver espresso singole valutazioni discutibili, cosa che, data
la mole dei materiali da valutare e dei giudizi da stilare, ci può stare
tranquillamente (e in questo senso chi è stato escluso ha tutto il diritto di
ritenersi vittima di una ingiustizia – salvo errori di autovalutazione indotti
dal regime precedente, come notano B & S). La commissione è accusata di
distorsione sistematica dei valori in campo, dovuta a bias ideologici, a
pregiudizi favorevoli nei confronti di candidati che lavorano in certe aree
geografiche e adottano certi approcci metodologici. Si parla di nemici, cordate, epurazioni, regolamenti di
conti. Insomma della vecchia logica, sopravvissuta in forma ancora più
perniciosa data la pretesa universalistica del concorso nazionale. La
commissione viene anche accusata di aver redatto giudizi frettolosi e lacunosi.
Il risultato sarebbe non solo e non tanto un nocumento arrecato a singole
persone, ma alla disciplina nel suo complesso, che già versa in precarie
condizioni di salute.
Si tratta di accuse gravi. Si
tratta anche di accuse che riproducono il vezzo nazionale di ridurre tutto quanto
in poltiglia – siamo tutti ladri, corrotti, raccomandati, non si salva
nessuno. Si tratta, in più, di
accuse che vanno esattamente in direzione contraria a quella auspicata da
Bianco & C., non facendo certo del bene all’immagine pubblica della disciplina.
Forse non il presente sito, ma certo quello di Roars è molto frequentato dai
non sociologi. E’ possibile che la commissione abbia applicato criteri
restrittivi (comunque meno di quanto sembra, date le non poche domande ‘spurie’
presenti) anche nella speranza di far riguadagnare alla disciplina una immagine
di serietà, alquanto danneggiata negli anni trascorsi da politiche accademiche
che possiamo per educazione definire ‘discutibili’. Non direi che questo genere
di proteste sia di grande aiuto.
Nel merito delle specifiche
obiezioni, o accuse, a parte che faccio fatica a capire le allusioni contenute
negli interventi, per me del tutto oscure (evidentemente vent’anni abbondanti di
appartenenza professionale continuano a consegnarmi a una totale marginalità
rispetto alle baruffe e i pettegolezzi, cosa di cui non mi dispiaccio), osservo
quanto segue:
a) Distinguere Nord e Sud
indiscriminatamente è alquanto manicheo. Ci sono molti Nord e molti Sud, e
certo il Nord cui appartengo io (l’estremo lembo nazionale di Trieste) non ha
goduto in questi anni di particolari condizioni di favore, né in termini di
denaro né in termini di posti. Casomai il contrario. Anche a paragone di alcune
sedi del Sud. Dopodiché è senz’altro vero che chi lavora in università centrali
è avvantaggiato in molti modi. Ma cosa avrebbe dovuto fare la commissione?
Pesare le pubblicazioni a seconda della collocazione geografica? Nella mia
esperienza non è mai avvenuto che sia o non sia riuscito a pubblicare qualcosa
semplicemente perché lavoravo a Trieste invece che a Milano o a Trento. E’ semmai
importante che gli studiosi, giovani e meno giovani, non si lascino sopraffare
dalla sudditanza ai ‘docenti di riferimento’ scegliendo collocazioni ‘protette’
o addirittura - come mi è capitato
di sentire – distillando le bibliografie in base alle appartenenze di corrente.
Se uno lo fa è perché sceglie di farlo (riproducendo in questo modo i vizi
sistemici di cui è vittima), nessuno lo obbliga, e chi come me non lo ha mai
fatto non mi risulta abbia subito per questo sanzioni drammatiche; al massimo
qualche noia passeggera. La responsabilità scientifica, come quella penale, è
personale. Ma la qualità e la valutabilità del risultato non possono che
soffrirne. Le riviste internazionali in questo senso sono addirittura
vantaggiose: nessuno sa chi sei, o non gliene importa nulla, quindi sarai
valutato solo per quello che hai scritto.
b) Sul cattivo lavoro della
commissione: se ci si dà la pena di dare un’occhiata panoramica ad altri
settori, anche di scienze ‘dure’, si può costatare come il nostro (inclusa la
commissione di territorio-economia) sia tra quelli che ha prodotto giudizi
piuttosto articolati. Nei limiti delle capacità umane di smaltire in tempi
ragionevoli una simile mole di lavoro non ho l’impressione di un lavoro
generalmente raffazzonato; mi sembra anzi il contrario. Altra cosa è dire che
singoli giudizi sono incongrui o lacunosi. Questo, ripeto, ci può stare, ma
l’accusa generale mi pare ingenerosa e ingiustificata.
c) La commissione ha
privilegiato una certa nozione del lavoro scientifico in campo sociologico,
mostrando presunzione e arroganza, dicono Bianco & C. Il punto è delicato.
E' ovvio che è impossibile valutare i prodotti della ricerca e le attività di
ricerca in genere se non a partire da un punto di vista su cosa sia una ricerca
di qualità, e che su questo ci possono essere divergenze di opinione. Però mi
pare difficile immaginare che una commissione fatta di una pluralità di persone
converga su una visione così restrittiva e unilaterale come viene dipinta. Di
fatto tra le persone abilitate c'è gente che fa ricerca su temi e in modi molto
differenti. Vorrei sapere quale sarebbe questa visione unilaterale e
restrittiva, cui evidentemente appartengo anch'io. E, fermo restando
l'inevitabile margine di soggettività nelle valutazioni, era forse meglio il
sistema precedente, ossia l’arbitrio pressoché totale? Un sistema in cui
qualcuno – qualsiasi cosa e ovunque avesse scritto – aveva lavorato così tanto,
e in modo così straordinario, mentre qualcun altro – anche qui qualunque cosa
avesse fatto – mancava inevitabilmente di quel quid che gli permettesse di
superare una valutazione comparativa? Teniamo anche conto della maniera
estensiva in cui la classe A è stata costruita, per cui avere pubblicazioni in
classe A perde in certa misura di capacità discriminativa. Onestà intellettuale
vorrebbe che si riconoscesse che pubblicare su certe riviste nazionali non è
minimamente paragonabile – se non altro per il tempo e l’energia necessaria per
riuscire a vedere il pezzo pubblicato – a pubblicare su riviste internazionali
di un certo livello. E’ vero che un lavoro di qualità elevatissima può essere
pubblicato anche sul bollettino parrocchiale. Ma resta il fatto che questo
lavoro non ha subito il fuoco di fila delle obiezioni dei referee e la
difficoltà aggiuntiva di trasferire le idee in una lingua straniera. A tale
riguardo vorrei obiettare che la commissione non mi pare aver dato risalto
all’internazionalizzazione come segno di provincialismo, ma come indicazione di
una strada da seguire necessariamente – pena la sostanziale scomparsa della
disciplina. In altri settori l’internazionalizzazione è tale che probabilmente
pochissimi di noi supererebbero i criteri fissati. E la marginalità della
sociologia italiana – con le debite eccezioni – rispetto al dibattito
internazionale, e anche ormai a quello nazionale (vedi bastonate sui fondi
ministeriali e rispetto alle istanze di orientamento dei fondi europei, per non
dire quanto poco i sociologi vengono interpellati su tematiche pubbliche
riguardo alle quali dovrebbe esser loro riconosciuta competenza prioritaria), è
cosa che deve fare riflettere. E in ogni caso ripeto: era meglio la modalità
precedente, in cui le pubblicazioni di qualcuno, stampate nella tipografia
sotto casa, erano superlative, mentre quelle di qualcun altro, anche se
sottoposte a vaglio rigoroso, erano lacunose e poco originali? E’ chiaro che
qualsiasi sistema di valutazione non rende giustizia a tutto e tutti. Ed è
anche chiaro che se ci fosse un minimo di onestà intellettuale non sarebbe
necessario ancorarsi a parametri discutibili fin che si vuole ma almeno non
totalmente arbitrari. Il problema è che questa onestà ha latitato per molti,
troppi anni.
d) Veniamo così all’ultimo punto.
Il danno complessivo alla comunità sociologica. A quanto ho già detto aggiungo
solo che trovo nel documento di Bianco & C. il segno di un altro vezzo
nazionale: la tendenza delle classi dirigenti ad autoassolversi. Accusare i
lavori della commissione di una restrizione futura degli spazi per la
sociologia, anziché la politica accademica pregressa, mi pare un’operazione intellettuale
che non fa molto onore agli estensori del documento. I quali – ora – lamentano
i danni prodotti dalla divisione in ‘componenti’. Tuttavia a me non risulta che
qualcuno – incluso chi si trovava in posizione tale da non avere nulla da
perdere al riguardo – si sia mai pubblicamente dissociato dalla prassi, votando
in commissione di concorso a favore di un candidato di altra ‘appartenenza’ e
contro il ‘proprio’. Grandi attestati di stima ai convegni, magari. Ma al
momento cruciale fedeltà assoluta alla consegna. Diciamocelo francamente: se fosse
per la classe dirigente sociologica, il sistema della spartizione tra
componenti proseguirebbe indisturbato nei secoli dei secoli.
Per
concludere, ribadisco la mia opinione. La commissione può aver commesso errori, magari anche gravi ingiustizie singole. Ma accusarla genericamente di disonestà
e sciatteria è ingiustificato e arreca ulteriori danni alla sociologia.
Comunque si valuti il concorso (così come il VQR) un passo avanti c’è stato (per esempio conosco persone che con il vecchio
sistema non sarebbero passate mai, o solo attraverso lunghissime e umilianti trafile,
così come le valutazioni emerse dal VQR non sembrano così distanti dalla
percezione dello stato delle cose che molti di noi hanno, come le accuse di
parzialità e sudditanza ai diktat ministeriali vorrebbero). Si tratta di
continuare in questa direzione. Per le commissioni imparando dal lavoro e dagli
errori compiuti. Per i candidati non abilitati adottando l’atteggiamento che
accennava Alfredo Agustoni alla fine del suo intervento e su cui Matteo Bortolini e Carmelo Lombadi imperniano il loro: impegnarsi in un lavoro che amiamo e che dobbiamo cercare di
fare nel modo migliore possibile. Se i risultati sono validi, in un sistema
perfettibile ma tendenzialmente universalistico, i riconoscimenti arriveranno.
Luigi Pellizzoni (Università di Trieste)
Ciao Luigi! Sai che a livello nazionale ti considero una delle poche figure IDONEE a portare il nome di maestro. Semplicemente, l'ululato di certi sciacalli, complice l'onta dei "listoni nazionali", unitamente alle fanfare della meritocrazia, mi portano, di giorno in giorno, di ora in ora, a riconoscermi sempre di più NELLA PRIMA PARTE DEL MIO POST, più che nel secondo che tu citi ... più guardo ai risultati e più mi convinco che queste idoneità abbiano costituito un passo avanti soltanto verso la disarticolazione della "comunità" (usiamo questo nome ...) scientifica nazionale, dove, nel trauma collettivo, vedo le tre (o quattro) vecchie componenti ora sostituite dalla "voice" del partito dei contusi (non ultimo il sottoscritto) e dalla "loiality" del partito dei commissari ... Si vedrà nel tempo (e sarà, questo sì, sociologicamente interessante) vedere la resilienza del vecchio sistema o l'evoluzione verso nuovi equilibri ... Detto questo, perdonami il dissenso, le presenti procedure (mi riferisco soprattutto ma non solo a 14d1, e qui con te convengo: i giudizi sono stati ancora più stereotipati, decontestualizzati, arbitrari) non mi sono sembrate molto più eque delle vecchie valutazioni comparative, che avrebbero potuto almeno "teoricamente" essere tali, dal momento che tre o cinque candidati valutavano un numero ragionevolmente contenuto di profili: per carità, ci sono passato anch'io e non le rimpiango!
RispondiEliminaAlfredo Agustoni (Università di Chieti-Pescara)