venerdì 3 gennaio 2014

DOVE VA LA SOCIOLOGIA? (Riflessioni amare sui risultati dell’ASN)

La recente pubblicazione dei primi esiti dell'Abilitazione scientifica nazionale (al momento sono pubblici i risultati delle commissioni di Sociologia generale, giuridica e politica e di Sociologia dei processi economici, del lavoro, dell'ambiente, mancando ancora quelli della commissione di Sociologia dei processi culturali) non poteva non suscitare dibattito, anche acceso, dentro la comunità sociologica.  Molte reazioni si sono limitate sinora agli scambi interpersonali e ai confronti interni tra i membri di singoli dipartimenti. Sono circolate lettere di critica (anche "denuncia") in mailing list dedicate, e non sono mancati naturalmente post inviati al forum espressamente creato per la discussione degli esiti dell'ASN dal sito, ora rivista, ROARS. Quella che riceviamo e che qui di seguito pubblichiamo, è a quanto ci risulta la prima presa di posizione pubblica, il primo documento, scritto in reazione alla pubblicazione dei risultati, da parte di sociologi. Firmato da alcuni colleghi (tutti ordinari o ex ordinari ora in pensione) il documento è, come si può intuire sin dal titolo, fortemente critico rispetto agli esiti dell'ASN e in particolare ai lavori della commissione di Sociologia generale. Volentieri lo pubblichiamo, invitando come sempre alla discussione e al confronto, che siamo certi non mancherà.



Questo documento nasce in reazione ai risultati resi pubblici in questi giorni dei lavori della Commissione di Sociologia generale, giuridica e politica, relativi all’ASN (Abilitazione Scientifica Nazionale). Anche se largamente noti alla comunità scientifica, ne richiamiamo gli aspetti principali:

1. Fortissime (e inspiegabili) differenze di valutazione tra Sociologia generale (19,6 di abilitati nella prima fascia, 16,7% nella seconda) e quelle effettuate – a tutt’oggi – dalle altre Commissioni (media generale prima fascia: 43,9; mediana: 41,6; seconda fascia: 43,8; mediana: 41,5);

2. Per circa un terzo, gli abilitati di prima fascia provengono da altri settori concorsuali; dei 29 abilitati, 25 sono concentrati nelle regioni del Nord: Centro e Sud insieme contano in tutto 4 abilitati; per quasi un terzo, gli abilitati appartengono a sedi della stessa città (Milano);

3. Per la seconda fascia, dove non sono ovviamente indicati né la sede né il settore, si possono solo segnalare le tendenze in atto: circa 60 su 71 abilitati (le domande presentate sono 424) provengono da università del Nord; di questi circa 15 (un quarto) da Milano, una decina da Trento. Guardando ai campi di interesse (in mancanza dei SSD), i candidati con poche eccezioni presentano lavori in buona misura congruenti con le specifiche del settore abilitante;

4. I candidati sono stati valutati quasi esclusivamente sul piano scientifico. È mancata pressoché totalmente la valutazione delle attività didattiche svolte e – come sarebbe stato logico almeno per i candidati alla prima fascia – la capacità e l’esperienza di lavoro istituzionale e gestionale;

5. Giudizi stereotipi e frettolosi, incongruenze, arbitri valutativi e veri e propri errori materiali sono largamente presenti nella formulazione dei giudizi.


La nostra reazione non ha come motivo principale l’esplicitare stupore e disaccordo sui
risultati generali e su molti particolari che emergono da quella valutazione: spetterà ai candidati che si sentono ingiustamente penalizzati mobilitarsi o meno nelle sedi e con i mezzi che riterranno più opportuni. Ciò che spinge gli estensori del documento a intervenire pubblicamente è la sensazione che questo episodio sia l’ultimo, e però assai grave, segnale di un processo ormai di lungo corso che registra il declino quantitativo della presenza, e soprattutto la trasformazione qualitativa del ruolo e della natura delle discipline sociologiche. Fino ad oggi, questo processo era in buona misura imputabile a meccanismi esterni alla nostra comunità scientifica: il prevalere di retoriche disciplinari appiattite sullo spirito e persino sui gusti dei tempi; un’egemonia sempre più manifesta delle culture scientifiche dominanti, che purtroppo non ha incontrato resistenze ma ha anzi quasi sempre visto corrisponderle un “soddisfatto asservimento”; una diffusa pratica di omologazione concettuale, teorica e metodologica rispetto alle scienze hard, nel tentativo di presentare un’immagine pubblica di sé e del proprio lavoro in linea con uno statuto disciplinare storicamente consolidato.

Oggi, invece, questa vicenda chiama in causa attori e comparse interni alla nostra stessa disciplina. Chi vorrà, potrà approfondire e documentare meglio valutazioni e più o meno esplicite prese di posizione della Commissione: il cui comportamento – sia detto tra parentesi – è stato più omogeneo a compiti di selezione concorsuale (peraltro male assolti) che a compiti di valutazione abilitativa (cioè ai compiti per i quali avevano un mandato pubblico). Da parte nostra, vorremmo soprattutto rendere chiare le conseguenze che deriveranno dalle scelte della Commissione.

Primo. L’aver effettuato una selezione così drastica – finora, quella di gran lunga più drastica di tutte le altre discipline – e per di più nel settore portante della sociologia italiana, comporta una gravissima delegittimazione di tutta la nostra comunità scientifica. Sappiamo quanto ci è costato difendere spazi e dignità alla nostra disciplina nelle sedi istituzionali come nei molti luoghi pubblici e privati nei quali ci siamo trovati ad operare. Con quale forza potremo sostenere il confronto con le altre discipline dopo questo generalizzato giudizio di immaturità scientifica e di basso livello qualitativo della nostra (teoricamente migliore) classe docente e ricercatrice? Gli abilitati (assai più numerosi) degli altri settori, forti dei loro risultati, premeranno con successo riducendo ulteriormente la già scarsa presenza della sociologia nelle sedi universitarie. Già questo solo dato mette in luce tutta l’irresponsabilità e la miopia della Commissione.

Secondo. Nessuno vuole stabilire rigidi principi di equità geografica nella distribuzione delle (scarse) risorse di cui dispone e disporrà la nostra disciplina. Ma una così forte e quasi assoluta concentrazione delle abilitazioni nelle università del Nord (con Milano in testa) non può non sollevare una serie di domande, tra le quali quella se si sia in presenza di un tentativo (consapevole o meno) di imporre a tutta la sociologia italiana un modello di prevalente ispirazione “scientista” e (acriticamente) “anglosassone”, che nel nostro paese è fortemente concentrato negli atenei del Nord.
Qualunque sia la ragione, siamo di fronte a decisioni prese, ancora una volta, senza guardare alle conseguenze istituzionali delle proprie azioni. Per richiamare le maggiori: nella prima fascia i tantissimi abilitati del Nord avranno difficoltà a essere chiamati in sedi diverse da quelle a cui appartengono, e molte sedi del Centro e del Sud non potranno disporre di nessun ordinario, con l’oggettiva impossibilità di tenere in vita iniziative didattiche e di ricerca di un qualche peso. Nella seconda fascia, i moltissimi ricercatori (del Centro, del Sud, ma anche del Nord) umiliati dal giudizio per l’abilitazione, ragionevolmente si sottrarranno ai compiti didattici cui per il loro contratto non sono obbligati, facendo venir meno i requisiti minimi necessari a tenere in vita un grande numero di corsi di studio.

Terzo. Ci avviciniamo al punto fondamentale. I risultati della selezione mostrano con grande evidenza che la Commissione ha ispirato le sue scelte, e in modo radicale, fondamentalmente a una concezione del modo di fare lavoro scientifico in campo sociologico: una one best way che rende inutile e anzi dannosa la sola presenza di modi differenti e alternativi di lavorare. Così, alla logica clientelare e particolaristica delle vecchie componenti di ispirazione ideologico-politico-confessionale – di cui non si parlerà mai abbastanza male – si viene sostituendo una diversa logica di appartenenza, che si manifesta come una nuova componente – questa volta paludata di academic regalia – oggettivamente presuntuosa e inevitabilmente arrogante, che dietro la “formula politica” del merito fa strage di chi, anche in modo eccellente, fa ricerca scientifica seguendo approcci diversi: peraltro largamente prevalenti in campo internazionale e che anche in Italia si distinguono per aver prodotto conoscenze e idee di spessore, entrate stabilmente nel dibattito scientifico come in quello pubblico. Si tratta a parer nostro di una forma grave e unilaterale di selezione contraria allo spirito e ai valori della scienza.

Quarto, e ultimo. Con qualche eccezione, la Commissione ha condotto i suoi lavori – come si può facilmente rilevare da una rapida lettura dei verbali – con grande leggerezza e superficialità, quando non sciatteria. Si è esibito rigore, ma non verso se stessi. Giudizi standardizzati (e non individuali); pressoché totale assenza di una valutazione analitica dei titoli (come prescritto dal bando); erronee attribuzioni ai candidati di lavori e di competenze non proprie; scarso rispetto dei criteri stabiliti dal bando o persino dalla stessa Commissione; valutazioni e giudizi che riecheggiano pigramente gli indicatori della VQR, pensati peraltro per uno scopo assai diverso e comunque oggi oggetto di ripensamento; una interpretazione burocratica e banalizzante della c.d. internazionalizzazione, fatta coincidere con la pubblicazione in lingua inglese e incredibilmente negata a candidati in posizioni di rilievo in progetti internazionali e/o nazionali su bandi competitivi e con lunghe frequentazioni e solide relazioni con l’estero; candidati valutati come irrimediabili mediocri, che invece su indicatori importanti (ad esempio, il numero di articoli pubblicati su riviste di fascia A) presentano valori notevolmente superiori a quello mediano di riferimento, o che, in settori affini, hanno ricevuto giudizi altamente lusinghieri; uso di un italiano spesso incomprensibile, o approssimativo e trascurato, e così via. Tutti segnali di uno scarsissimo rispetto verso il lavoro e la persona dei candidati. Siamo, purtroppo, molto lontani dalle best practices della valutazione, che dovrebbe avere come primo e più vincolante principio quello di rispettare e, di più, di piegarsi a capire approcci e modalità di lavoro scientifico, anche e soprattutto quando sono diversi da quelli che si praticano e che si ritengono giusti.

Cosa fare, sarà in buona misura responsabilità e compito di tutti noi. Nell’immediato futuro, si dovranno rivedere meccanismi e regole del sistema di valutazione, perché molte cose non hanno funzionato. Ma il vero cambiamento, weberianamente, deve avvenire in noi: adottando e praticando un’etica della valutazione che salvaguardi ciò che in questa vicenda non si è salvaguardato: il pluralismo delle idee, la fecondità delle differenze, la ricchezza del confronto scientifico.

Questo documento ha tra i suoi primi firmatari (in ordine alfabetico):

Maria Luisa Bianco, Paolo Giovannini, Alberto Marradi, Franco Rositi, Loredana Sciolla, Giovanni Battista Sgritta

Chi vi si riconosce può inviare la sua adesione ai seguenti indirizzi:
giovannini@unifi.it
alkmar@libero.it (marradi)

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