Il documento steso e firmato da Bianco, Giovannini, Marradi, Rositi, Sciolla, Sgritta merita attenzione per almeno due ragioni: 1) per il
“peso” dei firmatari nella storia recente della sociologia italiana; 2) per la
problematicità degli argomenti avanzati. In generale, ci pare si tratti di una
reazione “a caldo” alla pubblicazione dei risultati dell’ASN nel settore (giustamente considerato "portante") di “Sociologia
generale, politica e giuridica” che per quanto umanamente comprensibile non fa
giustizia né ai lavori della commissione suddetta, né alla sociologia come (weberiana)
“scienza di realtà”.
La nostra reazione alla reazione è svolta in forma di commenti ai
punti salienti del documento, che citeremo di volta in volta. Una nota a
margine, prima di iniziare: entrambi figuriamo nella lista degli abilitati, nei risultati delle due
commissioni sino ad oggi pubblicati. Se questa “compromissione” ci indurrebbe a
tacere, a far finta di niente, ad aspettare che altri parlino, il nostro impegno
in questo blog e in altre sedi di confronto, e non ultimo il nostro carattere,
ci hanno persuasi invece ad intervenire, assumendoci le responsabilità di ciò
che scriviamo. Inclusa quella, spiacevole, di manifestare in modo così netto il
nostro dissenso rispetto ai giudizi, alle diagnosi, alle prognosi, di colleghe
e colleghi che stimiamo e con cui ci siamo spesso trovati d’accordo.
Il documento inizia con l'elencazione dei principali risultati ("notissimi") dei lavori della commissione, e da qui iniziamo anche noi.
1. Fortissime (e
inspiegabili) differenze di valutazione tra Sociologia generale (19,6 di
abilitati nella prima
fascia, 16,7% nella seconda) e quelle effettuate – a tutt’oggi – dalle altre
Commissioni (media generale prima fascia: 43,9; mediana: 41,6; seconda fascia:
43,8; mediana: 41,5);
COMMENTO: La comparazione andrebbe fatta con le percentuali di
abilitati, innanzitutto, delle altre commissioni sociologiche. In secondo
luogo, con le altre scienze sociali. Le scienze hard – e gli studi umanistici -
hanno diversi criteri e tradizioni e storie. In terzo luogo, come diremo, va
considerata anche la “qualità” della popolazione (dell’N) di riferimento. Al momento disponiamo solo di
un caso direttamente comparabile al caso “incriminato”, quello di Sociologia
dei processi economici, del lavoro, ambiente e territorio. Il confronto è da
fare innanzitutto con questo caso. La percentuale di abilitati di prima fascia è
qui pari al 30,4%. Una differenza dunque molto più contenuta rispetto al 43,9%
calcolato su tutte le commissioni (scienze dure incluse) i cui esiti ci sono
noti. È giustificabile questa differenza? È chiaro che per i firmatari della
lettera la risposta sia no. Ma perché aspettarsi percentuali simili se le
popolazioni di partenza sono diverse? Non è più logico attendersi esiti diversi?
Di quale eterogeneità non osservata stiamo parlando? L’elaborazione
disaggregata per SSD relativa alla VQR (Fig. 1) fornisce una prima indicazione,
davvero eloquente: nella VQR i tre SSD che rientrano nella medesima classe di
concorso (sociologia generale, giuridica e politica) ottengono sistematicamente
valutazioni inferiori alla media.
Fonte: Elaborazioni della VQR a cura di Emilio Reyneri
Si tratta quindi di popolazioni eterogenee in termini di qualità
della produzione scientifica e, per questo, sarebbe stato inspiegabile e
stupefacente avere una stessa percentuale di abilitati. Una differenza di 10
punti percentuali è del tutto congruente con la diversità dei candidati e con
la qualità della loro produzione (al netto della fallacia ecologica che i dati
impongono).
L’argomento è anche supportato da un altro dato, semplice ed
efficace: la proporzione di NON abilitati la cui non-abilitazione sia stata
decisa all’unanimità dai membri della commissione – indice piuttosto robusto,
ci pare, della debolezza di una disciplina (una riflessione più cogente
richiederebbe anche qui qualche tipo di comparazione con discipline affini).
Ebbene, per la prima fascia questa proporzione sfiora – se abbiamo fatto bene i
nostri calcoli - il 40%. Un dato questo sì, ci pare, preoccupante e su cui
svolgere riflessioni amare! Se a questa si aggiunge la quota di coloro che
hanno avuto solo un giudizio positivo (sui cinque possibili e sui quattro
necessari per l’abilitazione), si arriva al 60% - e questo per entrambe le
fasce, grosso modo. Ciò significa che più della metà dei candidati
all’abilitazione per Sociologia generale ecc. presentava un CV e una lista di
pubblicazioni che almeno quattro commissari su cinque hanno ritenuto
insufficiente per l’abilitazione. Considerando che la commissione è composta da
(cinque appunto) colleghi che nel caso in oggetto appartengono a sedi diverse,
hanno specializzazioni di ricerca diverse, orientamenti intellettuali diversi,
persino afferenze “corporative” (in alcuni casi “di componente”, in almeno uno
di estraneità o distanza dal sistema delle componenti) differenziate, la convergenza
di giudizio appare assai probante. In breve, ci sembra di poter dire, dati alla
mano, che oltre la metà di chi ha fatto domanda l’ha fatta sovrastimando la
propria maturazione e il proprio valore (o merito, se si vuole, nella misura in
cui il “merito” può operativizzarsi come “giudizio condiviso sulle qualità
positive” di qualcuno). Il vero problema ai nostro occhi non è tanto, dunque,
perché così pochi abilitati, ma perché
così tanti candidati giudicati di “scarsa qualità” in modo pressoché unanime?
Su questa domanda torneremo più avanti.
2. Per circa un
terzo, gli abilitati di prima fascia provengono da altri settori concorsuali;
dei 29 abilitati, 25 sono concentrati nelle regioni del Nord: Centro e Sud
insieme contano in tutto 4 abilitati; per quasi
un terzo, gli abilitati appartengono a sedi della stessa città (Milano);
3. Per la seconda
fascia, dove non sono ovviamente indicati né la sede né il settore, si possono
solo segnalare le tendenze in atto: circa 60 su 71 abilitati (le domande
presentate sono 424) provengono da università del Nord; di questi circa 15 (un
quarto) da Milano, una decina da Trento. Guardando ai campi di interesse (in
mancanza dei SSD), i candidati con poche eccezioni presentano lavori in buona
misura congruenti con le specifiche del settore abilitante;
COMMENTO: posto che la provenienza da altri settori potrebbe
essere letta positivamente come “apertura” alla varietà e segno di pluralismo
(che è esattamente il contrario di quella chiusura omologante che il documento
invece rimprovera alla commissione), è un dato di fatto che la distribuzione
geografica mostra rilevanti squilibri tra sedi e aree territoriali. Poiché su
questo secondo aspetto gli estensori si diffondono in un passo successivo, lo
commenteremo più avanti. Ci limitiamo qui ad anticipare che le cose non sono
così semplici, né così sorprendenti.
4. I candidati
sono stati valutati quasi esclusivamente sul piano scientifico. È mancata
pressoché totalmente la valutazione delle attività didattiche svolte e – come
sarebbe stato logico almeno per i candidati alla prima fascia – la capacità e
l’esperienza di lavoro istituzionale e gestionale;
COMMENTO: La procedura prende il nome di ASN - abilitazione
scientifica nazionale - non per
caso. Ai titoli scientifici è stata coerentemente attribuita un’importanza
maggiore rispetto alla didattica e al “lavoro istituzionale e gestionale”. Tali
compiti e mansioni sono essenziali per il buon funzionamento delle Università, ma
la loro valutazione (e valorizzazione) dovrebbe avvenire a parità (e non in sostituzione) di titoli scientifici a livello locale. In altri termini, tra due
candidati abilitati in base ai titoli scientifici, è corretto dare la
precedenza al candidato con più oneri organizzativi e gestionali nella sede di
appartenenza. Ma questa valutazione non può e non deve essere lasciata a una
commissione nazionale all’interno di una procedura di abilitazione scientifica nazionale, il cui mandato
(lo prevede la legge in modo esplicito) esclude
la valutazione di titoli in campo organizzativo-gestionale – a meno che non si
tratti della gestione di attività direttamente rilevanti sul piano scientifico,
come progetti di ricerca di rilievo nazionale e internazionale, riviste o
collane, enti di ricerca.
5. Giudizi
stereotipi e frettolosi, incongruenze, arbitri valutativi e veri e propri
errori materiali sono largamente
presenti nella formulazione dei giudizi.
COMMENTO: Gli estensori della lettera non condividono
evidentemente (alcuni? molti? tutti?) dei giudizi di idoneità e di non idoneità.
Critica che per essere legittima deve essere suffragata da evidenze empiriche. Altrimenti
ogni commissione può essere criticata in questo modo generico. Se gli estensori della lettera pensano
di essere in grado di evitare “Giudizi stereotipi e frettolosi, incongruenze,
arbitri valutativi” nel loro lavoro di commissari di concorso, non hanno che da
candidarsi. Purtroppo, scorrendo la lista degli aspiranti commissari
sorteggiabili compare solo uno dei firmatari. Al netto dei due colleghi pensionati,
che ovviamente non potevano candidarsi (o forse sì, al momento del bando?),
viene da chiedersi: perché non si sono candidati? Se lo faranno e verranno
estratti (sempre che permanga l’attuale sistema, cosa molto dubbia come
sappiamo), vi saranno sicuramente altri colleghi che criticheranno il loro
operato, in modo più o meno argomentato. Finché non si candidano, invece,
questo non sarà possibile.
Inoltre, è plausibile che se le domande fossero state meno, anche
i giudizi avrebbero potuto essere più analitici e ad personam. Ma, come si è sottolineato prima, le domande sono
state tante e spesso basate su una sovrastima dei propri titoli e/o meriti e/o
valore. E questo non è certo un problema minore, anzi. Problema di cui i
commissari non hanno responsabilità (almeno in quanto commissari).
Ciò che spinge
gli estensori del documento a intervenire pubblicamente è la sensazione che
questo episodio sia l’ultimo, e però assai grave, segnale di un processo ormai
di lungo corso che registra il declino quantitativo della presenza, e
soprattutto la trasformazione qualitativa del ruolo e della natura delle
discipline sociologiche. Fino ad oggi, questo processo era in buona misura imputabile
a meccanismi esterni alla nostra comunità scientifica: il prevalere di retoriche disciplinari
appiattite sullo spirito e persino sui gusti dei tempi; un’egemonia sempre più
manifesta delle culture scientifiche dominanti, che purtroppo non ha incontrato
resistenze ma ha anzi quasi sempre visto corrisponderle un “soddisfatto
asservimento”; una diffusa pratica di omologazione concettuale, teorica e
metodologica rispetto alle scienze hard, nel tentativo di presentare un’immagine pubblica di sé e del
proprio lavoro in linea con uno statuto disciplinare storicamente consolidato.
Oggi, invece, questa vicenda chiama in causa attori e comparse interni alla nostra
stessa disciplina.
COMMENTO: Dobbiamo dire che questa diagnosi ci trova totalmente in disaccordo, anzi ci
sorprendiamo che sia stato possibile avanzare due argomenti così opinabili, per
non dire così facilmente confutabili. Come è stato documentato (per non dire
denunciato) in oltre due anni di discussione su questo blog e sul forum
Treccani, persino sul Forum dell’AIS, se c’è stata trasformazione qualitativa (in senso negativo) del ruolo
e della natura della sociologia questa è da attribuire in primis alla incapacità dei suoi stati maggiori di a) degnamente
rappresentare la disciplina nelle sedi di confronto con altre discipline; b)
governare in modo adeguato alle regole e agli standard di una comunità scientifica il reclutamento e gli
avanzamenti di carriera. Sappiamo bene come funzionavano (e chissà, forse
funzionano ancora, dobbiamo vedere cosa succederà con queste abilitazioni in
mano) i concorsi, o meglio le procedure comparative, sino a ieri: spartizione
dei posti, valutazione approssimativa dei titoli, giudizi a volte del tutto
incongrui rispetto ai titoli e ai meriti (con tanto di patenti di “immaturità
scientifica” date solo per eliminare candidati e permettere ai vincitori in pectore per cui tipicamente i bandi
erano pensati di ottenere il posto, anche a costo di avanzare elogi del tutto
immeritati e spropositati al CV e ai titoli). Curiosamente, alcuni dei firmatari di questo documento sono
stati in passato anche firmatari di altri documenti in cui questa situazione di
degrado veniva ampiamente denunciata.
E veniamo al secondo argomento avanzato nel passaggio citato,
quello secondo cui il problema della sociologia italiana (di questa stiamo parlando) sarebbe stata “una diffusa
pratica di omologazione concettuale, teorica e metodologica rispetto alle
scienze hard”. Ma davvero? Dobbiamo
confessare di non essercene mai accorti, nonostante la nostra ormai non breve e
ci pare anche piuttosto assidua frequentazione del campo sociologico nazionale.
Anzi, sosterremmo esattamente l’opposto. La sociologia italiana ha scimmiottato
le scienze dure? Basta scorrere gli ultimi venti anni delle più diffuse riviste
italiane (alcune dirette dagli estensori del documento) per mettere alla prova
questa affermazione. Si prenda un qualunque
numero della “Rassegna Italiana di Sociologia”, di “Studi di Sociologia”, dei “Quaderni
di Sociologia”, persino di “Sociologica” (la più recente, che pubblica in
lingua inglese, e del cui board siamo entrambi membri dalla fondazione) e si
vedrà quanto pluralismo intellettuale esiste nella nostra disciplina – o quanto
meno, visto che questo è il punto, quanto lontani si sia da una presunta omologazione
rispetto alle scienze hard (esse
stesse peraltro sempre meno omologate).
Anche sulle presunte “conseguenze che deriveranno dalle scelte
della Commissione”, su cui soprattutto si sofferma il documento, nutriamo
ragionevoli perplessità, che esponiamo di seguito, ancora una volta sotto forma
di commenti al documento medesimo.
Primo. L’aver effettuato una
selezione così drastica – finora, quella di gran lunga più drastica di tutte le
altre discipline – e per di più nel settore portante della sociologia italiana,
comporta una gravissima delegittimazione di tutta la nostra comunità
scientifica. Sappiamo quanto ci è costato difendere spazi e dignità alla nostra
disciplina nelle sedi istituzionali come nei molti luoghi pubblici e privati
nei quali ci siamo trovati ad operare. Con quale forza potremo sostenere il
confronto con le altre discipline dopo questo generalizzato giudizio di
immaturità scientifica e di basso livello qualitativo della nostra
(teoricamente migliore) classe docente e ricercatrice? Gli abilitati (assai più
numerosi) degli altri settori, forti dei loro risultati, premeranno con
successo riducendo ulteriormente la già scarsa presenza della sociologia nelle
sedi universitarie. Già questo solo dato mette in luce tutta l’irresponsabilità
e la miopia della Commissione.
COMMENTO: Irresponsabile e miope sarebbe stato un esito del tipo “avanti
tutti” o todos caballeros, che
avrebbe rallentato, se non bloccato, i migliori giovani che si stanno formando
e sono in attesa dell’abilitazione. L’effetto più grave sarebbe infatti stato
quello di creare una grande massa di sociologi abilitati di prima o seconda
fascia, che avrebbero a quel punto costituito un ostacolo, bloccando le coorti
più giovani e colleghi magari più capaci. Una situazione, in sostanza, non
lontana da quella creatasi con la cosiddetta "ope
legis" degli anni ’80. Concedere l’abilitazione a percentuali elevate avrebbe
cioè creato una coda molto lunga, penalizzante per i giovani e regolata dalla seniority. In presenza di un meccanismo
annuale e regolare, invece, una selezione che assicuri il 20-30% di abilitati
garantisce le nuove generazioni.
Senza contare, come abbiamo visto, che era la popolazione di
partenza, la “materia prima” potremmo dire, su cui ha lavorato la commissione
ad essere molto disomogenea e in buona parte debole. La delegittimazione della
disciplina, ci spiace dire anzi ridire, è stata prodotta dagli stessi sociologi
nel corso di decenni di disastrosa autoregolazione professionale, giocata al
ribasso e in funzione di principi che sono ortogonali rispetto alla “dignità”
di una disciplina scientifica, come la lealtà di corrente (leggi componente),
la previa spartizione dei posti, un diffuso localismo, e una gestione per così
dire molto disinvolta delle stesse norme e forme concorsuali (con tutto il
repertorio delle tattiche di aggiramento che tutti conosciamo, avendone subito
le conseguenze per anni, e in qualche caso avendole utilizzate quale membro di
commissione o quanto meno avendole accettate come “pratica” consolidata).
L’effetto congiunto di questi fattori è stata la produzione di una “massa” di
studiosi che in buona parte non ottengono neppure un giudizio positivo su
cinque al momento dell’abilitazione.
Secondo. Nessuno vuole stabilire
rigidi principi di equità geografica nella distribuzione delle (scarse) risorse
di cui dispone e disporrà la nostra disciplina. Ma una così forte e quasi
assoluta concentrazione delle abilitazioni nelle università del Nord (con
Milano in testa) non può non sollevare una serie di domande, tra le quali
quella se si sia in presenza di un tentativo (consapevole o meno) di imporre a
tutta la sociologia italiana un modello di prevalente ispirazione “scientista”
e (acriticamente) “anglosassone”, che nel nostro paese è fortemente concentrato
negli atenei del Nord.
COMMENTO: Vale quanto detto prima: senza dati adeguati (il che vuol
dire dati non solo sulla distribuzione geografica degli abilitati ma anche su
quella dei candidati, distinguendo tra questi quelli che potevano
ragionevolmente aspirare all’abilitazione e quelli che “ci hanno provato”), non
è semplice valutare l’affermazione. Senza contare che la
concentrazione territoriale dei prodotti culturali (i geografi studiano queste
cose da tempo, e anche i sociologi a dire il vero lo fanno) non è affatto
un’anomalia: ovunque alcune località hanno più reputazione e capacità di produrre
di altre - in Francia l’eccellenza sociologica è notoriamente concentrata a
Parigi, negli USA a New York, Chicago e California (Los Angeles e Berkeley), in
UK a Londra, Manchester e pochi altri centri urbani. Milano, Trento, e anche
Torino (che pur non essendo mai citata vede un numero non certo irrisorio di
abilitati) sono come noto le sedi che hanno fatto la storia della sociologia
italiana e in cui si concentrano ancora molti dei migliori sociologi (con le
loro scuole intellettuali). Dove sta il problema? Certo,
è un problema politico che ci siano squilibri così forti e sistematici tra
regioni, e tra Nord e Sud in particolare, ma non è una questione che deve
regolare le politiche di reclutamento (e avanzamento) di carriera.
Piuttosto,
converrebbe chiedersi perché alcune sedi e scuole hanno sedimentato negli anni
pratiche di produzione del lavoro scientifico più aperte e competitive di
altre. Vogliamo sottolineare che ciò non riguarda per nulla la concentrazione
territoriale dei “talenti”: bravi sociologi e sociologhe sono presenti
dappertutto, non certo solo nelle Università del Nord. La differenza rilevante
è in termini di “prodotti” scientifici, differenza che è il risultato di anni
di regole di cooptazione e concorsuali che non distinguevano tra prestigio
editoriale, serietà della valutazione paritaria e diffusione nella comunità
scientifica nazionale e internazionale. I risultati della VQR avvalorano questa
lettura, confermando: “la permanenza di uno squilibrio territoriale nel livello
medio di qualità dei prodotti a favore del Centro-Nord. Il Mezzogiorno presenta
punti di eccellenza, ma la maggioranza delle strutture si colloca sotto la
media” (VQR Rapporto Finale Area 14, p. 63). E non è abbassando gli standard di
valutazione che si rimedia a questa situazione.
Infine, deve essere sottolineato come la sociologia “anglosassone”
(richiamata nel documento come caso di pervicace scientismo) non sia per nulla
dominata dallo scientismo, qualunque cosa si voglia intendere con questo
termine. Di nuovo, basta scorrere gli ultimi anni del British Journal of Sociology o dell’AJS o di Sociological Theory
per avere un riscontro della pluralità di orientamenti e approcci che ancora
oggi (e forse soprattutto oggi) qualificano la sociologia prodotta negli USA e
in UK.
Qualunque sia la
ragione, siamo di fronte a decisioni prese, ancora una volta, senza guardare
alle conseguenze istituzionali delle proprie azioni. Per richiamare le
maggiori: nella prima fascia i tantissimi abilitati del Nord avranno difficoltà
a essere chiamati in sedi diverse da quelle a cui appartengono, e molte sedi
del Centro e del Sud non potranno disporre di nessun ordinario, con l’oggettiva
impossibilità di tenere in vita iniziative didattiche e di ricerca di un
qualche peso. Nella seconda fascia, i moltissimi ricercatori (del Centro, del
Sud, ma anche del Nord) umiliati dal giudizio per l’abilitazione,
ragionevolmente si sottrarranno ai compiti didattici cui per il loro contratto
non sono obbligati, facendo venir meno i requisiti minimi necessari a tenere in
vita un grande numero di corsi di studio.
COMMENTO: i “tantissimi abilitati del Nord” (sì? 25 per la prima
fascia e 60 per la seconda diventano “tantissimi”? ma non si auspicavano
percentuali più elevate?) se avranno difficoltà ad essere chiamati (apodissi tutta
da dimostrare), usufruiranno della mobilità, peraltro obbligatoria nella misura
del 20%. Se gli atenei senza abilitati di sociologia generale, giuridica e
politica vorranno, potranno chiamare un esterno. Ciò è considerato normale in
molti paesi, ma evidentemente non in Italia dove le cordate locali e i feudi
contano molto.
Invitiamo i firmatari del documento a considerare anche un altro
elemento che ci sembra cruciale: la mobilità geografica è uno dei più tipici
fattori di crescita e fecondazione intellettuale (basti pensare alle
conseguenze prodotte sulla sociologia americana dall’esodo in massa degli
studiosi tedeschi durante il nazismo). Non sappiamo cosa faranno i ricercatori
“umiliati”. Probabilmente alcuni faranno come dicono i firmatari (si
sottrarranno ai compiti didattici), altri (quelli con vocazione più intellettuale
che sindacale) insegneranno perché insegnare, trasmettere conoscenza, aver
rapporti con gli studenti, è ciò che loro piace e li gratifica – insieme
ovviamente al fare ricerca, che è ciò che l’ASN comunque valuta. E non ci pare
così male che ad insegnare sociologia siano (giovani, stiamo parlando di
ricercatori con compiti didattici) studiosi con un buon CV e buone
pubblicazioni.
Terzo. Ci avviciniamo al punto fondamentale. I risultati
della selezione mostrano con grande evidenza che la
Commissione ha ispirato le sue scelte, e in modo radicale, fondamentalmente a una concezione del modo di fare lavoro scientifico in
campo sociologico: una one best way che rende inutile e anzi dannosa la sola presenza di modi
differenti e alternativi di lavorare. Così, alla logica clientelare e particolaristica delle vecchie
componenti di ispirazione ideologico-politico-confessionale – di cui non si parlerà mai abbastanza male – si
viene sostituendo una diversa logica di appartenenza, che si manifesta come una nuova componente –
questa volta paludata di academic regalia – oggettivamente presuntuosa e
inevitabilmente arrogante, che dietro la “formula politica” del merito fa
strage di chi, anche in modo eccellente, fa ricerca scientifica seguendo
approcci diversi: peraltro largamente prevalenti in campo internazionale e che
anche in Italia si distinguono per aver prodotto conoscenze e idee di spessore, entrate
stabilmente nel dibattito scientifico come in quello pubblico. Si tratta a parer nostro di una
forma grave e unilaterale di selezione contraria allo spirito e ai valori della scienza.
COMMENTO: Anche in questo caso, i conti non tornano. È sufficiente
scorrere la lista degli abilitati (ci limitiamo alla prima fascia, ma il
discorso ci sembra possa estendersi senza problemi alla seconda) per trovare
l’evidenza che NON di questo si tratti, ovvero per trovare una pluralità di
orientamenti teorici, metodologici, e interessi di ricerca, che pone al riparo
non solo la sociologia italiana dal rischio di omologazione ad un presunto
modello scientista ma anche i membri della commissione (tutti, basta guardare i
giudizi dati dai singoli commissari ai singoli abilitati) dall’aver adottato in
modo presuntuoso un modello, il loro, a standard di valutazione. Non è qui il caso di fare l’elenco degli
abilitati. Chiunque può scorrere la lista con tanto di CV e giudicare. Quello che è certo è che la stragrande
maggioranza degli abilitati non solo non si riconosce in modelli scientisti ma
neppure è solito fare ricerca quantitativa. Su 25 abilitati di prima fascia,
almeno 12 (il cui lavoro conosciamo, uno di noi è tra questi) non sono in nessun modo qualificabili come
“scientisti”, anzi molti sono programmaticamente “anti-scientisti”. Tra gli
altri, al massimo 3 o 4 possono rientrare nella generica categoria evocata. Di
cosa stiamo parlando dunque? Che cosa hanno visto i firmatari? Quali e quanti
nomi hanno attirato la loro attenzione tanto da indurli ad affermare ciò che ad
uno sguardo disincantato risulta una patente falsità? Vedere un disegno
scientista annidato nelle Università del Nord, sia detto con rispetto per i
firmatari, ci pare francamente fantascientifico.
Quarto, e
ultimo. Con
qualche eccezione, la Commissione ha condotto i suoi lavori – come si può facilmente
rilevare da una rapida lettura dei verbali – con grande leggerezza e
superficialità, quando non sciatteria. Si è esibito rigore, ma non verso se
stessi. Giudizi standardizzati (e non individuali); pressoché totale assenza di
una valutazione analitica dei titoli (come prescritto dal bando); erronee attribuzioni
ai candidati di lavori e di competenze non proprie; scarso rispetto dei criteri
stabiliti dal bando o persino dalla stessa Commissione;
COMMENTO: Non è così, o almeno risulta evidente dalla lettura dei
verbali che almeno 4 commissari su 5 non hanno redatto giudizi “con grande
leggerezza e superficialità”. E anche il giudizio collettivo non ha queste
caratteristiche. A meno di sostenere che la sintesi è superficialità. Al
contrario, è vero che un commissario ha scritto giudizi effettivamente
sgrammaticati, disordinati e zeppi di errori materiali. Di ciò se ne assume la
responsabilità davanti alla comunità scientifica: il linguaggio degli SMS è
ormai invalso, ma non dovrebbe far parte dei verbali di concorso. Da qui a
rovesciare sull’intera commissione una critica di sciatteria ci pare però che
ne corra (e per dirla tutta, ci sembra produrre il noto effetto boomerang).
Sugli errori, se ve ne sono stati, gli interessati possono far
ricorso nelle sedi proprie. Come è loro diritto. Lo stesso dicasi per la
valutazione analitica. Non abbiamo particolari informazioni a riguardo, ma
guardando i giudizi sin qui pubblicati, sono poche le commissioni che hanno
scritto qualcosa di simile a un giudizio analitico (specialmente nel caso di
commissioni con elevati numeri di candidature da vagliare nei tempi concessi
dal ministero). Immaginiamo quindi che il tutto sia avvenuto in accordo con il
MIUR. Ma anche in questo caso, in mancanza di elementi concreti è saggio
sospendere il giudizio.
(…) valutazioni e giudizi
che riecheggiano pigramente gli indicatori della VQR, pensati peraltro per uno
scopo assai diverso e comunque oggi oggetto di ripensamento; una
interpretazione burocratica e banalizzante della c.d. internazionalizzazione, fatta
coincidere con la pubblicazione in lingua inglese e incredibilmente negata a
candidati in posizioni di rilievo in progetti internazionali e/o nazionali su
bandi competitivi e con lunghe frequentazioni e solide relazioni con l’estero;
candidati valutati come irrimediabili mediocri, che invece su indicatori importanti
(ad esempio, il numero di articoli pubblicati su riviste di fascia A)
presentano valori notevolmente superiori a quello mediano di riferimento, o
che, in settori affini, hanno ricevuto giudizi altamente lusinghieri; uso di un
italiano spesso incomprensibile, o approssimativo e trascurato, e così via. Tutti
segnali di uno scarsissimo rispetto verso il lavoro e la persona dei candidati.
Siamo, purtroppo, molto lontani dalle best practices della
valutazione, che dovrebbe avere come primo e più vincolante principio quello di
rispettare e, di più, di piegarsi a capire approcci e modalità di lavoro
scientifico, anche e soprattutto quando sono diversi da quelli che si praticano
e che si ritengono giusti.
COMMENTO: In questo passaggio, gli argomenti più rilevanti e non
già discussi sono due: l’internazionalizzazione e le riviste di fascia A. Quanto al primo, i colleghi/e lamentano
che sia stata adottata: “una interpretazione burocratica e banalizzante della
c.d. internazionalizzazione, fatta coincidere con la pubblicazione in lingua
inglese e incredibilmente negata a candidati in posizioni di rilievo in
progetti internazionali e/o nazionali su bandi competitivi e con lunghe
frequentazioni e solide relazioni con l’estero”. Tutti noi (ma proprio tutti)
abbiamo “lunghe frequentazioni e solide relazioni con l’estero”, per mille
ragioni. E molti di noi hanno fatto parte di progetti di ricerca
internazionali. Ciò che conta è se queste relazioni e pratiche danno luogo a
pubblicazioni su riviste che noi (come lettori) riteniamo importanti. Un’analisi
appena un po’ più attenta avrebbe poi evidenziato che molti tra gli abilitati
hanno pubblicazioni su riviste francesi e non solo “in lingua inglese”.
Quanto alla mediana delle riviste di fascia A, si tratta di
un’occasione persa. Basta scorrere l’elenco e guardare le riviste ivi comprese.
Quante sono quelle che gli estensori del documento considerano alla pari di
fascia A? Avere molti articoli in quella categoria, per come è costruita la
lista, non significa granché. Se ci fosse stata maggiore selettività nelle
inclusioni (chi vuole può rileggere la discussione sul sito AIS e su questo
Blog), allora le cose starebbero diversamente.
Cosa fare, sarà
in buona misura responsabilità e compito di tutti noi. Nell’immediato futuro, si
dovranno rivedere meccanismi e regole del sistema di valutazione, perché molte
cose non hanno funzionato. Ma il vero cambiamento, weberianamente, deve
avvenire in noi: adottando e praticando un’etica della
valutazione che salvaguardi ciò che in questa vicenda non si è salvaguardato:
il pluralismo delle idee, la fecondità delle differenze, la ricchezza del
confronto scientifico.
COMMENTO: Più che un’etica,
sarebbe sufficiente adottare e accettare, e ovviamente anche coltivare e
sviluppare e migliorare, una cultura
della valutazione. E’ una evidenza sociologica che in ogni valutazione qualcuno
viene ingiustamente valutato – o meglio che ogni atto di valutazione produce
contenti e scontenti, più o meno giustificati e giustificabili (anche quello
della giustificazione del resto è un oggetto sociologicamente ricco di
implicazioni, come sappiamo). Sacrosanto diritto esprimere il proprio
scontento. Avremmo preferito leggere un documento meno “giudicante” e più
riflessivo, meno “universalizzante” e più fondato dal punto di vista empirico e
metodologico. In attesa di vedere gli esiti della terza commissione sociologica
(che sono imminenti) e di procedere a quel punto ad una più corretta ed
equilibrata analisi dello stato presente e futuro (il “dove va”) della
sociologia italiana, vorremmo chiudere con questa riflessione, per nulla amara.
Al netto di tutti i limiti,
degli errori e dell’inevitabile path-dependency
che anche questo meccanismo porta con sé, ciò che
mostrano i risultati ad oggi noti di questo primo esercizio di abilitazione, insieme
ai problemi in buona parte causati dai tempi stretti in cui si è dovuto
lavorare per giudicare una massa di aspiranti, è l'affacciarsi di una nuova
logica di valutazione dei CV e dei titoli scientifici, condotta in modo molto ma molto più universalista e
trasparente di quanto non fosse sino a ieri, e molto più al riparo dalle collusioni
(volute o subite poco importa) che hanno governato o meglio dominato per
decenni il reclutamento dei sociologi italiani secondo i gusti, le simpatie, i
calcoli, gli interessi di un manipolo di “grandi commissari” più o meno
organizzati e più o meno pubblicamente esposti (spesso non esposti, ma con il
saldo controllo dei fili che reggono le sorti delle procedure concorsuali).
La selettività di questi recenti risultati
si può benissimo spiegare come l'esito naturale (imprevisto, forse perverso per
qualcuno) di decenni di politiche di selezione sbagliate, giocate al ribasso,
pensate per sistemare amici e allievi, o soddisfare interessi biecamente
locali, che non hanno valorizzato la produzione scientifica dei molti talenti
di colleghe e colleghi, ora penalizzati dall’uso di criteri più in linea con
gli standard internazionali. Come abbiamo illustrato, la maggior parte dei
candidati è stata ritenuta non-idonea in modo pressoché unanime dalla
Commissione in parola. E la popolazione di riferimento è quella che ha ottenuto
i valori più bassi nella VQR. Il fatto che oltre la metà dei candidati siano stati
giudicati in questo modo, la dice lunga sullo stato di disorientamento e anomia
che domina nella nostra disciplina: perché se alcuni avranno deciso di
candidarsi “tanto per provare” o per non correre il rischio di perdere quella
che avrebbe anche potuto essere (in mancanza di precedenti) una buona occasione
per fare carriera, molti siamo sicuri l’hanno fatto in buona fede pensando di
avere un buon CV e il “merito”. Anni di cattivo governo producono non solo
disordine e sfiducia ma anche anomia, mancanza di riferimenti, assenza di
parametri condivisi di giudizio, incapacità di valutarsi e posizionarsi,
aspettative incerte se non del tutto malriposte. Non siamo noi chiaramente che
abbiamo il diritto e tanto meno il potere di stabilire il grado di fondatezza
delle pretese e aspettative altrui. Ci basiamo sui fatti e sui dati
disponibili, nonché sui giudizi di chi si è trovato, in virtù di un meccanismo
istituzionale, con il diritto, e il dovere, di dare il giudizio.
In sintesi, i risultati, liste alla mano,
ci paiono confortanti – comunque migliori di quelli che si sarebbero avuti se
avesse tenuto il meccanismo spartitorio e di premiazione delle fedeltà di
corrente (e delle gerarchie di attesa, queste sì di ispirazione burocratica).
Gli esiti delle abilitazioni vanno storicamente valutati comunque in questo contesto, in questa vicenda, riconoscendo gli errori
gravissimi fatti nel passato. Qualche singolo in questa “grande trasformazione”
ci sta probabilmente rimettendo, cosa che sempre succede nei momenti di
transizione, e ci dispiace per loro (alcuni sono stimati colleghi e in qualche
caso anche amici) ma il risultato complessivo resta comunque molto più adeguato
agli standard e alle regole di una comunità scientifica di quanto non sia stata
qualunque procedura selettiva (concorsuale o abilitativa che sia, sempre
selezione è o dovrebbe essere) che l’ha preceduto. E lo scientismo, anche in
questo caso, non c'entra nulla. C’entra semmai il disaccordo o meglio il
mancato accordo o forse ancor meglio l’assenza di una previa discussione in
modo da pervenire ad un accordo – anche questo sintomatico del disordine se non
dello sbando che regnano nella disciplina – sui principi e l’entità di quella
selezione. Lo stiamo facendo ora. Un po’ tardi, forse, per cambiare
drasticamente i risultati appena pubblicati, ma ancora in tempo per
rimediare ai sicuri errori del passato e i possibili errori del presente, e
soprattutto per guardare avanti in modo costruttivo.
Filippo Barbera (Università di Torino) e Marco Santoro
(Università di Bologna)
Le riflessioni che si potrebbero dipanare in risposta alla lettera di Barbera e Santoro sono molte e lascio ad altre “teste ben fatte” l’esercizio di una contro-replica più organica e puntuale.
RispondiEliminaAgli estensori della medesima faccio osservare solo che ogni commissione è un gruppo in cui le logiche di Herrshaft come di sottomissione, di potere (in cui si innestano anche logiche di genere, oltre che territoriali, di scuola, di appartenenza etc.) e di reputazione - al pari di quelle di influenzabilità come di scambio - sono le medesime di ogni altro gruppo politico o religioso.
Sarebbe bastato, per evitare la morte del nemico interno (in questo caso rappresentato soprattutto dai candidati del Centro-Sud), e la messa a tacere della parte meno (dottrinalmente e banalmente) epurativa della commissione, che ci fosse stata una maggiore rappresentatività di genere oltre che territoriale. Quest’ultima avrebbe scombinato totalmente gli esiti di questo olocausto ideologico, perché tradizioni scientifiche, criteri valutatitvi ed esperienze diverse si sarebbero confrontate invece che uccidersi con metodo fratricida.
Ignazia Bartholini
ignazia Bartholini
Mi congratulo, naturalmente, con Barbera e Santoro per la loro abilitazione ... Purtroppo, "Cicero pro domo sua", scrivo da non idoneo ... Non mi sto a lamentare: tra i non idonei ci sono amici più meritevoli di me ...
RispondiEliminaIdonea trovata quella di Barbera e Santoro, che osservano una relativa unanimità dei commissari nel settore 14C1, per trarne la conseguenza che gli idonei sono proprio idonei e gli altri proprio inidonei, gente che bazzica nel mondo accademico per le deplorevoli politiche di reclutamento che ci tiriamo dietro da qualche decennio ...
Vogliamo saggiare il teorema di Barbera e Santoro? Facciamo un attimo caso al settore concorsuale 14D1: non ho la pazienza di aprire tutti i 290 giudizi tra prima e seconda fascia ... ne apro a caso un centinaio e noto L'UNANIMITÀ TOTALE, salvi sei o sette casi dove la candidata o il candidato sono seccati 4-1. I giudizi sono sostanzialmente fotocopiati, limitandosi nella quasi totalità dei casi ad una constatazione dello "scarso" o "buon" livello di intrernazionalizzazione, qualità, coerenza con il settore e continuità.
Forse qualcuno vuole farmi credere che il relativo livello di consenso di 14C1 (dove perdo ai rigori, 3-2), provi un'effettiva rispondenza dei giudizi al valore dei candidati? A me sembra, piuttosto, che le valutazioni "bulgare" delle commissioni di 14D1 lascino spazio a qualche perplessità ...
Si segnala che molti dei firmatari del documento "Dove va la sociologia" non si sono candidati a far parte delle commissioni ... Gesto di grande responsabilità, con tutto il rispetto per la scelta di chi si è candidato, dal mio punto di vista, dettato dalla consapevolezza di non poter leggere e valutare seriamente e serenamente centinaia di profili e migliaia di testi in pochi mesi ...
Si prosegue dicendo che i ricercatori (questi immeritevoli parassiti, reclutati con i cattivi sistemi di un tempo, come si evince dalla lettera) si prodigheranno nella didattica per la passione che li anima nei confronti della scienza: ma quest'ampollosa affermazione non suona quasi come un controsenso?
Quanto a me, naturalmente, continuerò a praticare la mia passione nonché "missione" istituzionale (beruf!), cioè la ricerca, ben sapendo che l'unica VQR, nel lungo periodo, la praticherà quella che Trockij (e, sulle sue tracce, gli studenti del Maggio parigino) ha definito la SPAZZATURA DELLA STORIA. Farò i miei ricorsi, se ne avrò voglia, farò domanda per il 2014, se ne avrò voglia, terrò ancora qualche corso, se ne avrò voglia(non è detto che ce l'abbia!), sicuramente continuerò a fare ricerca con grande passione (perché ne ho voglia!), ricordandomi che in fondo Norbert Elias è andato in pensione come "senior lecturer" (e, per avere il suo spessore, rinuncerei ad ogni blasone accademico).
E mentre molti, diversamente abilitati, continueranno a fare ricerca con gran passione, forse qualcuno andrà avanti a suonare le fanfare della meritocrazia ... Forse per mancanza di parole e musiche più meritevoli d'ascolto!
Alfredo Agustoni, Università di Chieti-Pescara
Cari amici,
RispondiEliminama chi ha scritto documento? Scommetto quello più giovane, bello, scientificamente rigoroso e ineffabile della cinquina, vero?
Ma vi supplico, amici di XLS, siate seri e lasciate perdere questa causa per altre migliori. Diciamoci insomma la verità, riservando l'uso della favella e della mano per impieghi migliori: il lavoro della Commissione 14C1 e in particolare di due membri che tutti conosciamo, è stata molte cose insieme. Per esempio, l'occasione per regolare vecchi conti (sbaglio, caro presidente?); oppure per affermare la saldezza di vecchi vincoli scientifici, politici e persino "amicali" (come sono amicali le relazioni universitarie, comprendendo tutti gli elementi precedenti); per ragioni "politiche" consistenti nel fare piazza pulita di altre cordate o, magari, di settori di vecchie cordate (in questo senso, Marco, missione riuscita!), ma anche per avversione nei confronti dei "critici", dei "qualitativi", di chi "usa la sociologia per fare politica" e le altre ragioni analoghe che la gamma delle giustificazioni e dei rapporti universitari offre. Insomma, niente di nuovo sotto il sole; eccetto che questa volta il danno è più largo.
Ora, cari amici di XLS, è proprio disdicevole che cerchiate di avanzare certe giustificazioni, che, peraltro, vi piaccia o meno, odorano proprio di quell'insopportabile scientismo a cui fate riferimento nella vostra lettera (uno scientismo tutto linguistico, orientato alla dimostrazione di una tesi precostituita. Insomma, uno "pseudo-scientismo" o una specie di interessato esercizio retorico, diciamocelo pure) e che, peraltro, rischiano di alienarvi le simpatie di molti (persino quelle degli amici che molto vi stimano e che pure ci tengono alla vostra cordialità).
E quanto ai cari commissari - in particolare quei due che ben conosciamo e che di questa operazione sono stati i registi - sarei ben lieto di dir loro che la vita continua, che non finisce auspicabilmente qui e che ci saranno verosimilmente tante occasioni e scenari per confrontarsi su questa vicenda (convegni, inaspettati faccia a faccia, tribunali). Occasioni, insomma, in cui sarà possibile riaprire questo discorso e ripetere loro, questa volta de visu, quanto infimo sia il giudizio umano e scientifico che molti -- e certamente io -- danno della loro persona e della loro opera. Insomma, non vi è dopo tutto ragione di infierire su di loro adesso e rinuncio volentieri a farlo.
Intanto un cordiale saluto agli amici del blog, ai colleghi che leggono queste righe e ai Commissari (quelli che compongono la "strana coppia", sia chiaro). Sono felice di avere avuto questa occasione per scambiare qualche riga e pensiero.
Pietro Saitta, Università degli Studi di Messina