lunedì 6 gennaio 2014

AVANTI, CON GIUDIZIO. Considerazioni (agrodolci) su riflessioni (amare).


Il documento steso e firmato da Bianco, Giovannini, Marradi, Rositi, Sciolla, Sgritta merita attenzione per almeno due ragioni: 1) per il “peso” dei firmatari nella storia recente della sociologia italiana; 2) per la problematicità degli argomenti avanzati. In generale, ci pare si tratti di una reazione “a caldo” alla pubblicazione dei risultati dell’ASN nel settore (giustamente considerato "portante") di “Sociologia generale, politica e giuridica” che per quanto umanamente comprensibile non fa giustizia né ai lavori della commissione suddetta, né alla sociologia come (weberiana) “scienza di realtà”.

La nostra reazione alla reazione è svolta in forma di commenti ai punti salienti del documento, che citeremo di volta in volta. Una nota a margine, prima di iniziare: entrambi figuriamo nella lista degli abilitati, nei risultati delle due commissioni sino ad oggi pubblicati. Se questa “compromissione” ci indurrebbe a tacere, a far finta di niente, ad aspettare che altri parlino, il nostro impegno in questo blog e in altre sedi di confronto, e non ultimo il nostro carattere, ci hanno persuasi invece ad intervenire, assumendoci le responsabilità di ciò che scriviamo. Inclusa quella, spiacevole, di manifestare in modo così netto il nostro dissenso rispetto ai giudizi, alle diagnosi, alle prognosi, di colleghe e colleghi che stimiamo e con cui ci siamo spesso trovati d’accordo.

Il documento inizia con l'elencazione dei principali risultati ("notissimi") dei lavori della commissione, e da qui iniziamo anche noi.

1. Fortissime (e inspiegabili) differenze di valutazione tra Sociologia generale (19,6 di abilitati nella prima fascia, 16,7% nella seconda) e quelle effettuate – a tutt’oggi – dalle altre Commissioni (media generale prima fascia: 43,9; mediana: 41,6; seconda fascia: 43,8; mediana: 41,5);

COMMENTO: La comparazione andrebbe fatta con le percentuali di abilitati, innanzitutto, delle altre commissioni sociologiche. In secondo luogo, con le altre scienze sociali. Le scienze hard – e gli studi umanistici - hanno diversi criteri e tradizioni e storie. In terzo luogo, come diremo, va considerata anche la “qualità” della popolazione (dell’N) di riferimento. Al momento disponiamo solo di un caso direttamente comparabile al caso “incriminato”, quello di Sociologia dei processi economici, del lavoro, ambiente e territorio. Il confronto è da fare innanzitutto con questo caso. La percentuale di abilitati di prima fascia è qui pari al 30,4%. Una differenza dunque molto più contenuta rispetto al 43,9% calcolato su tutte le commissioni (scienze dure incluse) i cui esiti ci sono noti. È giustificabile questa differenza? È chiaro che per i firmatari della lettera la risposta sia no. Ma perché aspettarsi percentuali simili se le popolazioni di partenza sono diverse? Non è più logico attendersi esiti diversi? Di quale eterogeneità non osservata stiamo parlando? L’elaborazione disaggregata per SSD relativa alla VQR (Fig. 1) fornisce una prima indicazione, davvero eloquente: nella VQR i tre SSD che rientrano nella medesima classe di concorso (sociologia generale, giuridica e politica) ottengono sistematicamente valutazioni inferiori alla media.






Fonte: Elaborazioni della VQR a cura di Emilio Reyneri

Si tratta quindi di popolazioni eterogenee in termini di qualità della produzione scientifica e, per questo, sarebbe stato inspiegabile e stupefacente avere una stessa percentuale di abilitati. Una differenza di 10 punti percentuali è del tutto congruente con la diversità dei candidati e con la qualità della loro produzione (al netto della fallacia ecologica che i dati impongono).
L’argomento è anche supportato da un altro dato, semplice ed efficace: la proporzione di NON abilitati la cui non-abilitazione sia stata decisa all’unanimità dai membri della commissione – indice piuttosto robusto, ci pare, della debolezza di una disciplina (una riflessione più cogente richiederebbe anche qui qualche tipo di comparazione con discipline affini). Ebbene, per la prima fascia questa proporzione sfiora – se abbiamo fatto bene i nostri calcoli - il 40%. Un dato questo sì, ci pare, preoccupante e su cui svolgere riflessioni amare! Se a questa si aggiunge la quota di coloro che hanno avuto solo un giudizio positivo (sui cinque possibili e sui quattro necessari per l’abilitazione), si arriva al 60% - e questo per entrambe le fasce, grosso modo. Ciò significa che più della metà dei candidati all’abilitazione per Sociologia generale ecc. presentava un CV e una lista di pubblicazioni che almeno quattro commissari su cinque hanno ritenuto insufficiente per l’abilitazione. Considerando che la commissione è composta da (cinque appunto) colleghi che nel caso in oggetto appartengono a sedi diverse, hanno specializzazioni di ricerca diverse, orientamenti intellettuali diversi, persino afferenze “corporative” (in alcuni casi “di componente”, in almeno uno di estraneità o distanza dal sistema delle componenti) differenziate, la convergenza di giudizio appare assai probante. In breve, ci sembra di poter dire, dati alla mano, che oltre la metà di chi ha fatto domanda l’ha fatta sovrastimando la propria maturazione e il proprio valore (o merito, se si vuole, nella misura in cui il “merito” può operativizzarsi come “giudizio condiviso sulle qualità positive” di qualcuno). Il vero problema ai nostro occhi non è tanto, dunque, perché così pochi abilitati, ma perché così tanti candidati giudicati di “scarsa qualità” in modo pressoché unanime? Su questa domanda torneremo più avanti.

2. Per circa un terzo, gli abilitati di prima fascia provengono da altri settori concorsuali; dei 29 abilitati, 25 sono concentrati nelle regioni del Nord: Centro e Sud insieme contano in tutto 4 abilitati; per quasi un terzo, gli abilitati appartengono a sedi della stessa città (Milano);
3. Per la seconda fascia, dove non sono ovviamente indicati né la sede né il settore, si possono solo segnalare le tendenze in atto: circa 60 su 71 abilitati (le domande presentate sono 424) provengono da università del Nord; di questi circa 15 (un quarto) da Milano, una decina da Trento. Guardando ai campi di interesse (in mancanza dei SSD), i candidati con poche eccezioni presentano lavori in buona misura congruenti con le specifiche del settore abilitante;

COMMENTO: posto che la provenienza da altri settori potrebbe essere letta positivamente come “apertura” alla varietà e segno di pluralismo (che è esattamente il contrario di quella chiusura omologante che il documento invece rimprovera alla commissione), è un dato di fatto che la distribuzione geografica mostra rilevanti squilibri tra sedi e aree territoriali. Poiché su questo secondo aspetto gli estensori si diffondono in un passo successivo, lo commenteremo più avanti. Ci limitiamo qui ad anticipare che le cose non sono così semplici, né così sorprendenti.

4. I candidati sono stati valutati quasi esclusivamente sul piano scientifico. È mancata pressoché totalmente la valutazione delle attività didattiche svolte e – come sarebbe stato logico almeno per i candidati alla prima fascia – la capacità e l’esperienza di lavoro istituzionale e gestionale;

COMMENTO: La procedura prende il nome di ASN - abilitazione scientifica nazionale -  non per caso. Ai titoli scientifici è stata coerentemente attribuita un’importanza maggiore rispetto alla didattica e al “lavoro istituzionale e gestionale”. Tali compiti e mansioni sono essenziali per il buon funzionamento delle Università, ma la loro valutazione (e valorizzazione) dovrebbe avvenire a parità (e non in sostituzione) di titoli scientifici a livello locale. In altri termini, tra due candidati abilitati in base ai titoli scientifici, è corretto dare la precedenza al candidato con più oneri organizzativi e gestionali nella sede di appartenenza. Ma questa valutazione non può e non deve essere lasciata a una commissione nazionale all’interno di una procedura di abilitazione scientifica nazionale, il cui mandato (lo prevede la legge in modo esplicito) esclude la valutazione di titoli in campo organizzativo-gestionale – a meno che non si tratti della gestione di attività direttamente rilevanti sul piano scientifico, come progetti di ricerca di rilievo nazionale e internazionale, riviste o collane, enti di ricerca.

5. Giudizi stereotipi e frettolosi, incongruenze, arbitri valutativi e veri e propri errori materiali sono largamente presenti nella formulazione dei giudizi.

COMMENTO: Gli estensori della lettera non condividono evidentemente (alcuni? molti? tutti?) dei giudizi di idoneità e di non idoneità. Critica che per essere legittima deve essere suffragata da evidenze empiriche. Altrimenti ogni commissione può essere criticata in questo modo generico.  Se gli estensori della lettera pensano di essere in grado di evitare “Giudizi stereotipi e frettolosi, incongruenze, arbitri valutativi” nel loro lavoro di commissari di concorso, non hanno che da candidarsi. Purtroppo, scorrendo la lista degli aspiranti commissari sorteggiabili compare solo uno dei firmatari. Al netto dei due colleghi pensionati, che ovviamente non potevano candidarsi (o forse sì, al momento del bando?), viene da chiedersi: perché non si sono candidati? Se lo faranno e verranno estratti (sempre che permanga l’attuale sistema, cosa molto dubbia come sappiamo), vi saranno sicuramente altri colleghi che criticheranno il loro operato, in modo più o meno argomentato. Finché non si candidano, invece, questo non sarà possibile.
Inoltre, è plausibile che se le domande fossero state meno, anche i giudizi avrebbero potuto essere più analitici e ad personam. Ma, come si è sottolineato prima, le domande sono state tante e spesso basate su una sovrastima dei propri titoli e/o meriti e/o valore. E questo non è certo un problema minore, anzi. Problema di cui i commissari non hanno responsabilità (almeno in quanto commissari).

Ciò che spinge gli estensori del documento a intervenire pubblicamente è la sensazione che questo episodio sia l’ultimo, e però assai grave, segnale di un processo ormai di lungo corso che registra il declino quantitativo della presenza, e soprattutto la trasformazione qualitativa del ruolo e della natura delle discipline sociologiche. Fino ad oggi, questo processo era in buona misura imputabile a meccanismi esterni alla nostra comunità scientifica: il prevalere di retoriche disciplinari appiattite sullo spirito e persino sui gusti dei tempi; un’egemonia sempre più manifesta delle culture scientifiche dominanti, che purtroppo non ha incontrato resistenze ma ha anzi quasi sempre visto corrisponderle un “soddisfatto asservimento”; una diffusa pratica di omologazione concettuale, teorica e metodologica rispetto alle scienze hard, nel tentativo di presentare un’immagine pubblica di sé e del proprio lavoro in linea con uno statuto disciplinare storicamente consolidato. Oggi, invece, questa vicenda chiama in causa attori e comparse interni alla nostra stessa disciplina.

COMMENTO: Dobbiamo dire che questa diagnosi ci trova totalmente in disaccordo, anzi ci sorprendiamo che sia stato possibile avanzare due argomenti così opinabili, per non dire così facilmente confutabili. Come è stato documentato (per non dire denunciato) in oltre due anni di discussione su questo blog e sul forum Treccani, persino sul Forum dell’AIS, se c’è stata trasformazione qualitativa (in senso negativo) del ruolo e della natura della sociologia questa è da attribuire in primis alla incapacità dei suoi stati maggiori di a) degnamente rappresentare la disciplina nelle sedi di confronto con altre discipline; b) governare in modo adeguato alle regole e agli standard di una comunità scientifica il reclutamento e gli avanzamenti di carriera. Sappiamo bene come funzionavano (e chissà, forse funzionano ancora, dobbiamo vedere cosa succederà con queste abilitazioni in mano) i concorsi, o meglio le procedure comparative, sino a ieri: spartizione dei posti, valutazione approssimativa dei titoli, giudizi a volte del tutto incongrui rispetto ai titoli e ai meriti (con tanto di patenti di “immaturità scientifica” date solo per eliminare candidati e permettere ai vincitori in pectore per cui tipicamente i bandi erano pensati di ottenere il posto, anche a costo di avanzare elogi del tutto immeritati e spropositati al CV e ai titoli).  Curiosamente, alcuni dei firmatari di questo documento sono stati in passato anche firmatari di altri documenti in cui questa situazione di degrado veniva ampiamente denunciata.
E veniamo al secondo argomento avanzato nel passaggio citato, quello secondo cui il problema della sociologia italiana (di questa stiamo parlando) sarebbe stata “una diffusa pratica di omologazione concettuale, teorica e metodologica rispetto alle scienze hard”. Ma davvero? Dobbiamo confessare di non essercene mai accorti, nonostante la nostra ormai non breve e ci pare anche piuttosto assidua frequentazione del campo sociologico nazionale. Anzi, sosterremmo esattamente l’opposto. La sociologia italiana ha scimmiottato le scienze dure? Basta scorrere gli ultimi venti anni delle più diffuse riviste italiane (alcune dirette dagli estensori del documento) per mettere alla prova questa affermazione. Si prenda un qualunque numero della “Rassegna Italiana di Sociologia”, di “Studi di Sociologia”, dei “Quaderni di Sociologia”, persino di “Sociologica” (la più recente, che pubblica in lingua inglese, e del cui board siamo entrambi membri dalla fondazione) e si vedrà quanto pluralismo intellettuale esiste nella nostra disciplina – o quanto meno, visto che questo è il punto, quanto lontani si sia da una presunta omologazione rispetto alle scienze hard (esse stesse peraltro sempre meno omologate).

Anche sulle presunte “conseguenze che deriveranno dalle scelte della Commissione”, su cui soprattutto si sofferma il documento, nutriamo ragionevoli perplessità, che esponiamo di seguito, ancora una volta sotto forma di commenti al documento medesimo.

Primo. L’aver effettuato una selezione così drastica – finora, quella di gran lunga più drastica di tutte le altre discipline – e per di più nel settore portante della sociologia italiana, comporta una gravissima delegittimazione di tutta la nostra comunità scientifica. Sappiamo quanto ci è costato difendere spazi e dignità alla nostra disciplina nelle sedi istituzionali come nei molti luoghi pubblici e privati nei quali ci siamo trovati ad operare. Con quale forza potremo sostenere il confronto con le altre discipline dopo questo generalizzato giudizio di immaturità scientifica e di basso livello qualitativo della nostra (teoricamente migliore) classe docente e ricercatrice? Gli abilitati (assai più numerosi) degli altri settori, forti dei loro risultati, premeranno con successo riducendo ulteriormente la già scarsa presenza della sociologia nelle sedi universitarie. Già questo solo dato mette in luce tutta l’irresponsabilità e la miopia della Commissione.

COMMENTO: Irresponsabile e miope sarebbe stato un esito del tipo “avanti tutti” o todos caballeros, che avrebbe rallentato, se non bloccato, i migliori giovani che si stanno formando e sono in attesa dell’abilitazione. L’effetto più grave sarebbe infatti stato quello di creare una grande massa di sociologi abilitati di prima o seconda fascia, che avrebbero a quel punto costituito un ostacolo, bloccando le coorti più giovani e colleghi magari più capaci. Una situazione, in sostanza, non lontana da quella creatasi con la cosiddetta "ope legis" degli anni ’80. Concedere l’abilitazione a percentuali elevate avrebbe cioè creato una coda molto lunga, penalizzante per i giovani e regolata dalla seniority. In presenza di un meccanismo annuale e regolare, invece, una selezione che assicuri il 20-30% di abilitati garantisce le nuove generazioni.
Senza contare, come abbiamo visto, che era la popolazione di partenza, la “materia prima” potremmo dire, su cui ha lavorato la commissione ad essere molto disomogenea e in buona parte debole. La delegittimazione della disciplina, ci spiace dire anzi ridire, è stata prodotta dagli stessi sociologi nel corso di decenni di disastrosa autoregolazione professionale, giocata al ribasso e in funzione di principi che sono ortogonali rispetto alla “dignità” di una disciplina scientifica, come la lealtà di corrente (leggi componente), la previa spartizione dei posti, un diffuso localismo, e una gestione per così dire molto disinvolta delle stesse norme e forme concorsuali (con tutto il repertorio delle tattiche di aggiramento che tutti conosciamo, avendone subito le conseguenze per anni, e in qualche caso avendole utilizzate quale membro di commissione o quanto meno avendole accettate come “pratica” consolidata). L’effetto congiunto di questi fattori è stata la produzione di una “massa” di studiosi che in buona parte non ottengono neppure un giudizio positivo su cinque al momento dell’abilitazione.

Secondo. Nessuno vuole stabilire rigidi principi di equità geografica nella distribuzione delle (scarse) risorse di cui dispone e disporrà la nostra disciplina. Ma una così forte e quasi assoluta concentrazione delle abilitazioni nelle università del Nord (con Milano in testa) non può non sollevare una serie di domande, tra le quali quella se si sia in presenza di un tentativo (consapevole o meno) di imporre a tutta la sociologia italiana un modello di prevalente ispirazione “scientista” e (acriticamente) “anglosassone”, che nel nostro paese è fortemente concentrato negli atenei del Nord.

COMMENTO: Vale quanto detto prima: senza dati adeguati (il che vuol dire dati non solo sulla distribuzione geografica degli abilitati ma anche su quella dei candidati, distinguendo tra questi quelli che potevano ragionevolmente aspirare all’abilitazione e quelli che “ci hanno provato”), non è semplice valutare l’affermazione. Senza contare che la concentrazione territoriale dei prodotti culturali (i geografi studiano queste cose da tempo, e anche i sociologi a dire il vero lo fanno) non è affatto un’anomalia: ovunque alcune località hanno più reputazione e capacità di produrre di altre - in Francia l’eccellenza sociologica è notoriamente concentrata a Parigi, negli USA a New York, Chicago e California (Los Angeles e Berkeley), in UK a Londra, Manchester e pochi altri centri urbani. Milano, Trento, e anche Torino (che pur non essendo mai citata vede un numero non certo irrisorio di abilitati) sono come noto le sedi che hanno fatto la storia della sociologia italiana e in cui si concentrano ancora molti dei migliori sociologi (con le loro scuole intellettuali). Dove sta il problema? Certo, è un problema politico che ci siano squilibri così forti e sistematici tra regioni, e tra Nord e Sud in particolare, ma non è una questione che deve regolare le politiche di reclutamento (e avanzamento) di carriera.
Piuttosto, converrebbe chiedersi perché alcune sedi e scuole hanno sedimentato negli anni pratiche di produzione del lavoro scientifico più aperte e competitive di altre. Vogliamo sottolineare che ciò non riguarda per nulla la concentrazione territoriale dei “talenti”: bravi sociologi e sociologhe sono presenti dappertutto, non certo solo nelle Università del Nord. La differenza rilevante è in termini di “prodotti” scientifici, differenza che è il risultato di anni di regole di cooptazione e concorsuali che non distinguevano tra prestigio editoriale, serietà della valutazione paritaria e diffusione nella comunità scientifica nazionale e internazionale. I risultati della VQR avvalorano questa lettura, confermando: “la permanenza di uno squilibrio territoriale nel livello medio di qualità dei prodotti a favore del Centro-Nord. Il Mezzogiorno presenta punti di eccellenza, ma la maggioranza delle strutture si colloca sotto la media” (VQR Rapporto Finale Area 14, p. 63). E non è abbassando gli standard di valutazione che si rimedia a questa situazione.


Infine, deve essere sottolineato come la sociologia “anglosassone” (richiamata nel documento come caso di pervicace scientismo) non sia per nulla dominata dallo scientismo, qualunque cosa si voglia intendere con questo termine. Di nuovo, basta scorrere gli ultimi anni del British Journal of Sociology o dell’AJS o di Sociological Theory per avere un riscontro della pluralità di orientamenti e approcci che ancora oggi (e forse soprattutto oggi) qualificano la sociologia prodotta negli USA e in UK.

Qualunque sia la ragione, siamo di fronte a decisioni prese, ancora una volta, senza guardare alle conseguenze istituzionali delle proprie azioni. Per richiamare le maggiori: nella prima fascia i tantissimi abilitati del Nord avranno difficoltà a essere chiamati in sedi diverse da quelle a cui appartengono, e molte sedi del Centro e del Sud non potranno disporre di nessun ordinario, con l’oggettiva impossibilità di tenere in vita iniziative didattiche e di ricerca di un qualche peso. Nella seconda fascia, i moltissimi ricercatori (del Centro, del Sud, ma anche del Nord) umiliati dal giudizio per l’abilitazione, ragionevolmente si sottrarranno ai compiti didattici cui per il loro contratto non sono obbligati, facendo venir meno i requisiti minimi necessari a tenere in vita un grande numero di corsi di studio.

COMMENTO: i “tantissimi abilitati del Nord” (sì? 25 per la prima fascia e 60 per la seconda diventano “tantissimi”? ma non si auspicavano percentuali più elevate?) se avranno difficoltà ad essere chiamati (apodissi tutta da dimostrare), usufruiranno della mobilità, peraltro obbligatoria nella misura del 20%. Se gli atenei senza abilitati di sociologia generale, giuridica e politica vorranno, potranno chiamare un esterno. Ciò è considerato normale in molti paesi, ma evidentemente non in Italia dove le cordate locali e i feudi contano molto.
Invitiamo i firmatari del documento a considerare anche un altro elemento che ci sembra cruciale: la mobilità geografica è uno dei più tipici fattori di crescita e fecondazione intellettuale (basti pensare alle conseguenze prodotte sulla sociologia americana dall’esodo in massa degli studiosi tedeschi durante il nazismo). Non sappiamo cosa faranno i ricercatori “umiliati”. Probabilmente alcuni faranno come dicono i firmatari (si sottrarranno ai compiti didattici), altri (quelli con vocazione più intellettuale che sindacale) insegneranno perché insegnare, trasmettere conoscenza, aver rapporti con gli studenti, è ciò che loro piace e li gratifica – insieme ovviamente al fare ricerca, che è ciò che l’ASN comunque valuta. E non ci pare così male che ad insegnare sociologia siano (giovani, stiamo parlando di ricercatori con compiti didattici) studiosi con un buon CV e buone pubblicazioni.

Terzo. Ci avviciniamo al punto fondamentale. I risultati della selezione mostrano con grande evidenza che la Commissione ha ispirato le sue scelte, e in modo radicale, fondamentalmente a una concezione del modo di fare lavoro scientifico in campo sociologico: una one best way che rende inutile e anzi dannosa la sola presenza di modi differenti e alternativi di lavorare. Così, alla logica clientelare e particolaristica delle vecchie componenti di ispirazione ideologico-politico-confessionale – di cui non si parlerà mai abbastanza male – si viene sostituendo una diversa logica di appartenenza, che si manifesta come una nuova componente – questa volta paludata di academic regalia – oggettivamente presuntuosa e inevitabilmente arrogante, che dietro la “formula politica” del merito fa strage di chi, anche in modo eccellente, fa ricerca scientifica seguendo approcci diversi: peraltro largamente prevalenti in campo internazionale e che anche in Italia si distinguono per aver prodotto conoscenze e idee di spessore, entrate stabilmente nel dibattito scientifico come in quello pubblico. Si tratta a parer nostro di una forma grave e unilaterale di selezione contraria allo spirito e ai valori della scienza.

COMMENTO: Anche in questo caso, i conti non tornano. È sufficiente scorrere la lista degli abilitati (ci limitiamo alla prima fascia, ma il discorso ci sembra possa estendersi senza problemi alla seconda) per trovare l’evidenza che NON di questo si tratti, ovvero per trovare una pluralità di orientamenti teorici, metodologici, e interessi di ricerca, che pone al riparo non solo la sociologia italiana dal rischio di omologazione ad un presunto modello scientista ma anche i membri della commissione (tutti, basta guardare i giudizi dati dai singoli commissari ai singoli abilitati) dall’aver adottato in modo presuntuoso un modello, il loro, a standard di valutazione.  Non è qui il caso di fare l’elenco degli abilitati. Chiunque può scorrere la lista con tanto di CV e giudicare.  Quello che è certo è che la stragrande maggioranza degli abilitati non solo non si riconosce in modelli scientisti ma neppure è solito fare ricerca quantitativa. Su 25 abilitati di prima fascia, almeno 12 (il cui lavoro conosciamo, uno di noi è tra questi) non sono in nessun modo qualificabili come “scientisti”, anzi molti sono programmaticamente “anti-scientisti”. Tra gli altri, al massimo 3 o 4 possono rientrare nella generica categoria evocata. Di cosa stiamo parlando dunque? Che cosa hanno visto i firmatari? Quali e quanti nomi hanno attirato la loro attenzione tanto da indurli ad affermare ciò che ad uno sguardo disincantato risulta una patente falsità? Vedere un disegno scientista annidato nelle Università del Nord, sia detto con rispetto per i firmatari, ci pare francamente fantascientifico.

Quarto, e ultimo. Con qualche eccezione, la Commissione ha condotto i suoi lavori – come si può facilmente rilevare da una rapida lettura dei verbali – con grande leggerezza e superficialità, quando non sciatteria. Si è esibito rigore, ma non verso se stessi. Giudizi standardizzati (e non individuali); pressoché totale assenza di una valutazione analitica dei titoli (come prescritto dal bando); erronee attribuzioni ai candidati di lavori e di competenze non proprie; scarso rispetto dei criteri stabiliti dal bando o persino dalla stessa Commissione;

COMMENTO: Non è così, o almeno risulta evidente dalla lettura dei verbali che almeno 4 commissari su 5 non hanno redatto giudizi “con grande leggerezza e superficialità”. E anche il giudizio collettivo non ha queste caratteristiche. A meno di sostenere che la sintesi è superficialità. Al contrario, è vero che un commissario ha scritto giudizi effettivamente sgrammaticati, disordinati e zeppi di errori materiali. Di ciò se ne assume la responsabilità davanti alla comunità scientifica: il linguaggio degli SMS è ormai invalso, ma non dovrebbe far parte dei verbali di concorso. Da qui a rovesciare sull’intera commissione una critica di sciatteria ci pare però che ne corra (e per dirla tutta, ci sembra produrre il noto effetto boomerang).
Sugli errori, se ve ne sono stati, gli interessati possono far ricorso nelle sedi proprie. Come è loro diritto. Lo stesso dicasi per la valutazione analitica. Non abbiamo particolari informazioni a riguardo, ma guardando i giudizi sin qui pubblicati, sono poche le commissioni che hanno scritto qualcosa di simile a un giudizio analitico (specialmente nel caso di commissioni con elevati numeri di candidature da vagliare nei tempi concessi dal ministero). Immaginiamo quindi che il tutto sia avvenuto in accordo con il MIUR. Ma anche in questo caso, in mancanza di elementi concreti è saggio sospendere il giudizio.


(…) valutazioni e giudizi che riecheggiano pigramente gli indicatori della VQR, pensati peraltro per uno scopo assai diverso e comunque oggi oggetto di ripensamento; una interpretazione burocratica e banalizzante della c.d. internazionalizzazione, fatta coincidere con la pubblicazione in lingua inglese e incredibilmente negata a candidati in posizioni di rilievo in progetti internazionali e/o nazionali su bandi competitivi e con lunghe frequentazioni e solide relazioni con l’estero; candidati valutati come irrimediabili mediocri, che invece su indicatori importanti (ad esempio, il numero di articoli pubblicati su riviste di fascia A) presentano valori notevolmente superiori a quello mediano di riferimento, o che, in settori affini, hanno ricevuto giudizi altamente lusinghieri; uso di un italiano spesso incomprensibile, o approssimativo e trascurato, e così via. Tutti segnali di uno scarsissimo rispetto verso il lavoro e la persona dei candidati. Siamo, purtroppo, molto lontani dalle best practices della valutazione, che dovrebbe avere come primo e più vincolante principio quello di rispettare e, di più, di piegarsi a capire approcci e modalità di lavoro scientifico, anche e soprattutto quando sono diversi da quelli che si praticano e che si ritengono giusti.

COMMENTO: In questo passaggio, gli argomenti più rilevanti e non già discussi sono due: l’internazionalizzazione e le riviste di fascia A.  Quanto al primo, i colleghi/e lamentano che sia stata adottata: “una interpretazione burocratica e banalizzante della c.d. internazionalizzazione, fatta coincidere con la pubblicazione in lingua inglese e incredibilmente negata a candidati in posizioni di rilievo in progetti internazionali e/o nazionali su bandi competitivi e con lunghe frequentazioni e solide relazioni con l’estero”. Tutti noi (ma proprio tutti) abbiamo “lunghe frequentazioni e solide relazioni con l’estero”, per mille ragioni. E molti di noi hanno fatto parte di progetti di ricerca internazionali. Ciò che conta è se queste relazioni e pratiche danno luogo a pubblicazioni su riviste che noi (come lettori) riteniamo importanti. Un’analisi appena un po’ più attenta avrebbe poi evidenziato che molti tra gli abilitati hanno pubblicazioni su riviste francesi e non solo “in lingua inglese”.

Quanto alla mediana delle riviste di fascia A, si tratta di un’occasione persa. Basta scorrere l’elenco e guardare le riviste ivi comprese. Quante sono quelle che gli estensori del documento considerano alla pari di fascia A? Avere molti articoli in quella categoria, per come è costruita la lista, non significa granché. Se ci fosse stata maggiore selettività nelle inclusioni (chi vuole può rileggere la discussione sul sito AIS e su questo Blog), allora le cose starebbero diversamente.

Cosa fare, sarà in buona misura responsabilità e compito di tutti noi. Nell’immediato futuro, si dovranno rivedere meccanismi e regole del sistema di valutazione, perché molte cose non hanno funzionato. Ma il vero cambiamento, weberianamente, deve avvenire in noi: adottando e praticando un’etica della valutazione che salvaguardi ciò che in questa vicenda non si è salvaguardato: il pluralismo delle idee, la fecondità delle differenze, la ricchezza del confronto scientifico.

COMMENTO: Più che un’etica, sarebbe sufficiente adottare e accettare, e ovviamente anche coltivare e sviluppare e migliorare, una cultura della valutazione. E’ una evidenza sociologica che in ogni valutazione qualcuno viene ingiustamente valutato – o meglio che ogni atto di valutazione produce contenti e scontenti, più o meno giustificati e giustificabili (anche quello della giustificazione del resto è un oggetto sociologicamente ricco di implicazioni, come sappiamo). Sacrosanto diritto esprimere il proprio scontento. Avremmo preferito leggere un documento meno “giudicante” e più riflessivo, meno “universalizzante” e più fondato dal punto di vista empirico e metodologico. In attesa di vedere gli esiti della terza commissione sociologica (che sono imminenti) e di procedere a quel punto ad una più corretta ed equilibrata analisi dello stato presente e futuro (il “dove va”) della sociologia italiana, vorremmo chiudere con questa riflessione, per nulla amara.
Al netto di tutti i limiti, degli errori e dell’inevitabile path-dependency che anche questo meccanismo porta con sé, ciò che mostrano i risultati ad oggi noti di questo primo esercizio di abilitazione, insieme ai problemi in buona parte causati dai tempi stretti in cui si è dovuto lavorare per giudicare una massa di aspiranti, è l'affacciarsi di una nuova logica di valutazione dei CV e dei titoli scientifici, condotta in modo  molto ma molto più universalista e trasparente di quanto non fosse sino a ieri, e molto più al riparo dalle collusioni (volute o subite poco importa) che hanno governato o meglio dominato per decenni il reclutamento dei sociologi italiani secondo i gusti, le simpatie, i calcoli, gli interessi di un manipolo di “grandi commissari” più o meno organizzati e più o meno pubblicamente esposti (spesso non esposti, ma con il saldo controllo dei fili che reggono le sorti delle procedure concorsuali).

La selettività di questi recenti risultati si può benissimo spiegare come l'esito naturale (imprevisto, forse perverso per qualcuno) di decenni di politiche di selezione sbagliate, giocate al ribasso, pensate per sistemare amici e allievi, o soddisfare interessi biecamente locali, che non hanno valorizzato la produzione scientifica dei molti talenti di colleghe e colleghi, ora penalizzati dall’uso di criteri più in linea con gli standard internazionali. Come abbiamo illustrato, la maggior parte dei candidati è stata ritenuta non-idonea in modo pressoché unanime dalla Commissione in parola. E la popolazione di riferimento è quella che ha ottenuto i valori più bassi nella VQR. Il fatto che oltre la metà dei candidati siano stati giudicati in questo modo, la dice lunga sullo stato di disorientamento e anomia che domina nella nostra disciplina: perché se alcuni avranno deciso di candidarsi “tanto per provare” o per non correre il rischio di perdere quella che avrebbe anche potuto essere (in mancanza di precedenti) una buona occasione per fare carriera, molti siamo sicuri l’hanno fatto in buona fede pensando di avere un buon CV e il “merito”. Anni di cattivo governo producono non solo disordine e sfiducia ma anche anomia, mancanza di riferimenti, assenza di parametri condivisi di giudizio, incapacità di valutarsi e posizionarsi, aspettative incerte se non del tutto malriposte. Non siamo noi chiaramente che abbiamo il diritto e tanto meno il potere di stabilire il grado di fondatezza delle pretese e aspettative altrui. Ci basiamo sui fatti e sui dati disponibili, nonché sui giudizi di chi si è trovato, in virtù di un meccanismo istituzionale, con il diritto, e il dovere, di dare il giudizio.

In sintesi, i risultati, liste alla mano, ci paiono confortanti – comunque migliori di quelli che si sarebbero avuti se avesse tenuto il meccanismo spartitorio e di premiazione delle fedeltà di corrente (e delle gerarchie di attesa, queste sì di ispirazione burocratica). Gli esiti delle abilitazioni vanno storicamente valutati comunque in questo contesto, in questa vicenda, riconoscendo gli errori gravissimi fatti nel passato. Qualche singolo in questa “grande trasformazione” ci sta probabilmente rimettendo, cosa che sempre succede nei momenti di transizione, e ci dispiace per loro (alcuni sono stimati colleghi e in qualche caso anche amici) ma il risultato complessivo resta comunque molto più adeguato agli standard e alle regole di una comunità scientifica di quanto non sia stata qualunque procedura selettiva (concorsuale o abilitativa che sia, sempre selezione è o dovrebbe essere) che l’ha preceduto. E lo scientismo, anche in questo caso, non c'entra nulla. C’entra semmai il disaccordo o meglio il mancato accordo o forse ancor meglio l’assenza di una previa discussione in modo da pervenire ad un accordo – anche questo sintomatico del disordine se non dello sbando che regnano nella disciplina – sui principi e l’entità di quella selezione. Lo stiamo facendo ora. Un po’ tardi, forse, per cambiare drasticamente i risultati appena pubblicati, ma ancora in tempo per rimediare ai sicuri errori del passato e i possibili errori del presente, e soprattutto per guardare avanti in modo costruttivo.

Filippo Barbera (Università di Torino) e Marco Santoro (Università  di Bologna)

3 commenti:

  1. Le riflessioni che si potrebbero dipanare in risposta alla lettera di Barbera e Santoro sono molte e lascio ad altre “teste ben fatte” l’esercizio di una contro-replica più organica e puntuale.
    Agli estensori della medesima faccio osservare solo che ogni commissione è un gruppo in cui le logiche di Herrshaft come di sottomissione, di potere (in cui si innestano anche logiche di genere, oltre che territoriali, di scuola, di appartenenza etc.) e di reputazione - al pari di quelle di influenzabilità come di scambio - sono le medesime di ogni altro gruppo politico o religioso.
    Sarebbe bastato, per evitare la morte del nemico interno (in questo caso rappresentato soprattutto dai candidati del Centro-Sud), e la messa a tacere della parte meno (dottrinalmente e banalmente) epurativa della commissione, che ci fosse stata una maggiore rappresentatività di genere oltre che territoriale. Quest’ultima avrebbe scombinato totalmente gli esiti di questo olocausto ideologico, perché tradizioni scientifiche, criteri valutatitvi ed esperienze diverse si sarebbero confrontate invece che uccidersi con metodo fratricida.
    Ignazia Bartholini
    ignazia Bartholini

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  2. Mi congratulo, naturalmente, con Barbera e Santoro per la loro abilitazione ... Purtroppo, "Cicero pro domo sua", scrivo da non idoneo ... Non mi sto a lamentare: tra i non idonei ci sono amici più meritevoli di me ...
    Idonea trovata quella di Barbera e Santoro, che osservano una relativa unanimità dei commissari nel settore 14C1, per trarne la conseguenza che gli idonei sono proprio idonei e gli altri proprio inidonei, gente che bazzica nel mondo accademico per le deplorevoli politiche di reclutamento che ci tiriamo dietro da qualche decennio ...
    Vogliamo saggiare il teorema di Barbera e Santoro? Facciamo un attimo caso al settore concorsuale 14D1: non ho la pazienza di aprire tutti i 290 giudizi tra prima e seconda fascia ... ne apro a caso un centinaio e noto L'UNANIMITÀ TOTALE, salvi sei o sette casi dove la candidata o il candidato sono seccati 4-1. I giudizi sono sostanzialmente fotocopiati, limitandosi nella quasi totalità dei casi ad una constatazione dello "scarso" o "buon" livello di intrernazionalizzazione, qualità, coerenza con il settore e continuità.
    Forse qualcuno vuole farmi credere che il relativo livello di consenso di 14C1 (dove perdo ai rigori, 3-2), provi un'effettiva rispondenza dei giudizi al valore dei candidati? A me sembra, piuttosto, che le valutazioni "bulgare" delle commissioni di 14D1 lascino spazio a qualche perplessità ...
    Si segnala che molti dei firmatari del documento "Dove va la sociologia" non si sono candidati a far parte delle commissioni ... Gesto di grande responsabilità, con tutto il rispetto per la scelta di chi si è candidato, dal mio punto di vista, dettato dalla consapevolezza di non poter leggere e valutare seriamente e serenamente centinaia di profili e migliaia di testi in pochi mesi ...
    Si prosegue dicendo che i ricercatori (questi immeritevoli parassiti, reclutati con i cattivi sistemi di un tempo, come si evince dalla lettera) si prodigheranno nella didattica per la passione che li anima nei confronti della scienza: ma quest'ampollosa affermazione non suona quasi come un controsenso?
    Quanto a me, naturalmente, continuerò a praticare la mia passione nonché "missione" istituzionale (beruf!), cioè la ricerca, ben sapendo che l'unica VQR, nel lungo periodo, la praticherà quella che Trockij (e, sulle sue tracce, gli studenti del Maggio parigino) ha definito la SPAZZATURA DELLA STORIA. Farò i miei ricorsi, se ne avrò voglia, farò domanda per il 2014, se ne avrò voglia, terrò ancora qualche corso, se ne avrò voglia(non è detto che ce l'abbia!), sicuramente continuerò a fare ricerca con grande passione (perché ne ho voglia!), ricordandomi che in fondo Norbert Elias è andato in pensione come "senior lecturer" (e, per avere il suo spessore, rinuncerei ad ogni blasone accademico).
    E mentre molti, diversamente abilitati, continueranno a fare ricerca con gran passione, forse qualcuno andrà avanti a suonare le fanfare della meritocrazia ... Forse per mancanza di parole e musiche più meritevoli d'ascolto!
    Alfredo Agustoni, Università di Chieti-Pescara

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  3. Cari amici,

    ma chi ha scritto documento? Scommetto quello più giovane, bello, scientificamente rigoroso e ineffabile della cinquina, vero?

    Ma vi supplico, amici di XLS, siate seri e lasciate perdere questa causa per altre migliori. Diciamoci insomma la verità, riservando l'uso della favella e della mano per impieghi migliori: il lavoro della Commissione 14C1 e in particolare di due membri che tutti conosciamo, è stata molte cose insieme. Per esempio, l'occasione per regolare vecchi conti (sbaglio, caro presidente?); oppure per affermare la saldezza di vecchi vincoli scientifici, politici e persino "amicali" (come sono amicali le relazioni universitarie, comprendendo tutti gli elementi precedenti); per ragioni "politiche" consistenti nel fare piazza pulita di altre cordate o, magari, di settori di vecchie cordate (in questo senso, Marco, missione riuscita!), ma anche per avversione nei confronti dei "critici", dei "qualitativi", di chi "usa la sociologia per fare politica" e le altre ragioni analoghe che la gamma delle giustificazioni e dei rapporti universitari offre. Insomma, niente di nuovo sotto il sole; eccetto che questa volta il danno è più largo.

    Ora, cari amici di XLS, è proprio disdicevole che cerchiate di avanzare certe giustificazioni, che, peraltro, vi piaccia o meno, odorano proprio di quell'insopportabile scientismo a cui fate riferimento nella vostra lettera (uno scientismo tutto linguistico, orientato alla dimostrazione di una tesi precostituita. Insomma, uno "pseudo-scientismo" o una specie di interessato esercizio retorico, diciamocelo pure) e che, peraltro, rischiano di alienarvi le simpatie di molti (persino quelle degli amici che molto vi stimano e che pure ci tengono alla vostra cordialità).

    E quanto ai cari commissari - in particolare quei due che ben conosciamo e che di questa operazione sono stati i registi - sarei ben lieto di dir loro che la vita continua, che non finisce auspicabilmente qui e che ci saranno verosimilmente tante occasioni e scenari per confrontarsi su questa vicenda (convegni, inaspettati faccia a faccia, tribunali). Occasioni, insomma, in cui sarà possibile riaprire questo discorso e ripetere loro, questa volta de visu, quanto infimo sia il giudizio umano e scientifico che molti -- e certamente io -- danno della loro persona e della loro opera. Insomma, non vi è dopo tutto ragione di infierire su di loro adesso e rinuncio volentieri a farlo.

    Intanto un cordiale saluto agli amici del blog, ai colleghi che leggono queste righe e ai Commissari (quelli che compongono la "strana coppia", sia chiaro). Sono felice di avere avuto questa occasione per scambiare qualche riga e pensiero.

    Pietro Saitta, Università degli Studi di Messina

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