Prendo
spunto da un recente concorso al quale ho partecipato (gli atti del concorso
non sono stati ancora pubblicati e quindi non ne conosco l’esito), per iniziare
a parlare del contestabile processo di reclutamento delle Università italiane.
L’Università di Sassari ha bandito 29 posti da RTD (Ricercatore a Tempo
determinato) ognuno dei quali con uno specifico oggetto di ricerca. L’art. 24,
comma 2 A della Legge 240/2010 prevede che sia possibile inserire nei bandi un
profilo “esclusivamente tramite l’indicazione di uno o più settori
scientifico-disciplinari” (SSD) e non inserendo un progetto di ricerca
specifico (come invece si fa per gli assegni di ricerca).
Dunque i
bandi dovrebbero essere illegittimi. Dico dovrebbero
perché in realtà, in una interrogazione parlamente, il governo ha fatto sapere
che non è proibito l’inserimento di un progetto nel bando. Ma si tratta di una
interpretazione che non fa giurisprudenza: roba da giuristi, insomma. Ma,
per un attimo, sorvoliamo sulla cosa, perché non è di questo che voglio
parlare, ma di come e quanto sia facile, volendo, manipolare un concorso.
Ognuno di questi 29 posti è valutato da una specifica commissione composta da 3
docenti di ruolo dello stesso SSD oggetto di concorso. Ogni commissione ha stabilito dei
propri criteri con i quali valutare i candidati, come se, permettemi
la metafora, per ogni incontro di boxe i commissari scegliessero, di volta in
volta, regole diverse.
Rimanendo
nella metafora della boxe e a voler essere
maliziosi si potrebbe avanzare il sospetto che se il candidato che si vuole far
vincere (magari uno dei tanti che in questi anni ha accettato di lavorare
gratis all’Università o facendo fotocopie al professore di turno, secondo le
più perverse usanze della cooptazione) ha un bel diretto si danno 4 punti al
diretto, se ha un gancio così così si danno 2 punti e se invece è debole con il
montante allora si da un solo punto per questo. Fuor di metafora, il dubbio che
ogni commissione calibri questi criteri sul profilo del candidato prescelto è
più che un semplice sospetto. Ovviamente ci sono dei criteri nazionali ai quali
ogni commissione deve attenersi, anche se la legge, però, non specifica il peso
che ad ogni singolo criterio deve essere dato. Mi spiego meglio.
La legge
nazionale dice: devi valutare il gancio, il
diretto e il montante, ma non dice quanto questi devono pesare sul risultato
finale. Così, ritornando ai concorsi di Sassari anche se l’esempio potrebbe
essere esteso a livello nazionale, le commissioni hanno seguito le indicazioni
della legge (“Criteri e
parametri per la valutazione preliminare dei candidati di procedure pubbliche
di selezione dei destinatari di contratti di cui all’art. 24, comma 2, lettera
c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240”), ma poi sono state
libere di scegliere il peso da dare ad ogni singolo aspetto. La legge, che per
comodità chiamerò la 240, dice che devono essere valutati i titoli (Dottorato
di ricerca di ricerca; eventuale attività didattica a livello universitario in Italia
o all’Estero ecc..) e la produzione scientifica (ovvero le
pubblicazioni), ma non dice il peso che ognuno di questi titoli e pubblicazioni
deve avere. Così, all’interno dello stesso bando, abbiamo commissioni che
mettono in palio 50 punti (suddivisi tra i vari titoli e pubblicazioni) e
commissioni che ne mettono in palio 100 ed altre ancora che ne mettono in palio
60, una addirittura 49 punti.
Così,
giusto per fare un esempio e per voler essere
malizioso, se volessi far vincere un candidato cercherò di valorizzare i punti
in cui lui è più forte. Ad esempio se so che il mio candidato ha diverse
monografie darò molti punti alle monografie, mentre darò più peso agli articoli
internazionali se so che il mio candidato ha articoli peer reviewed. Al contrario
se il mio candidato non ha grosse pubblicazioni, allora metto tutto in un
calderone e do 10 punti generici per l’originalità e l’innovatività delle
pubblicazioni (aspetto, vien da sè, assolutamente arbitrario e soggettivo).
Così un candidato che dovesse presentare (il limite massimo delle pubblicazioni
è 12), ad esempio, 4 monografie e 8 articoli internazionali risulterebbe quasi
uguale (la differenza sarebbe minima) al candidato che presente 1 monografia,
un articolo nazionale e 10 capitoli scritti con altri in libri
collettanei.
Ed ancora. Se un candidato non ha mai insegnato all’università (eppure
secondo il bando di Sassari il candidato vincitore del concorso dovrà insegnare
almeno 90 ore frontali l’anno) darò pochi punti (ad esempio 2 su 60); al contrario,
se il candidato prescelto ha insegnato per tanti anni all’Università si
potrebbero dare 6 punti su 60. E così via. Il gioco è piuttosto semplice, ma
tragicamente vero e triste. Ora, mi si permetta di entrare nello specifico di
un concorso che conosco bene perché vi ho partecipato direttamente. Qui la
commissione ha deciso di assegnare 60 punti in totale (30 per i titoli e 30 per
le pubblicazioni).
Di questi
solo 2 per “svolgimento di attività didattica formalizzata a
livello universitario in Italia o all’estero”, ovvero il 3% del totale. La
commissione ha dunque arbitrariamente deciso che avere esperienza didattica in
Italia o all’estero è quasi irrilevante per, tra le altre cose, insegnare.
Aspetto, per quanto non illegittimo, molto discutibile. Per fare un esempio con
il sistema di reclutamento anglosassone: nel concorso che ho vinto alla
Northumbria University ho dovuto sostenere, tra le altre prove, anche una
lezione di fronte agli studenti (visto che sono anche loro i fruitori
del servizio che presto all’Università) e sono stato da loro giudicato,
non per il contenuto ma per la chiarezza espositiva. Il loro giudizio ha
concorso a formare la mia valutazione finale.
La
commissione ha altresì deciso di assegnare 4
punti (il doppio rispetto all’attività didattica) per lo “svolgimento di
attività pertinente il progetto di ricerca”. La cosa interessante è che la
legge 240 non contempla questo titolo. Per tornare alla metafora della boxe, è
un po come se i commissari scegliessero di inserire oltre al gancio, al diretto
e al montante (previsti dalla legge) anche lo schiaffo. Ma ora il punto più
interessante. Per le pubblicazioni la commissione ha deciso di mettere in palio
30 punti (metà del totale). Sino ad un massimo di 10 punti per “originalità, innovatività
e importanza di ciascuna pubblicazione scientifica” senza distinguere tra
articoli internazionali o quaderni di facoltà, tra monografie o capitoli in
curatele.
Alcune
commissioni, sempre dello stesso bando, hanno
invece preferito (secondo me giustamente) dare il giusto peso ad ogni singola
pubblicazione. Così, ad esempio, il concorso 11/D2 ha
dato sino a punti 14 punti per “Pubblicazioni su riviste nazionali e
internazionali”, sino a 20 punti per le “Monografie” e sino a 6 punti per
“Interventi a convegni con pubblicazione degli atti”. Questo perché non tutte
le pubblicazioni sono uguali, anche se poi la commissione giustamente valuta
quanto, nello specifico, dare ad ogni singola pubblicazione. Ma la suddivisione
tra monografie, articoli e capitoli rispecchia dei criteri un po’ più
oggettivi.
Tralascio
gli altri aspetti (controversi ma non illegittimi) e
mi soffermo sull’ultimo aspetto inserito nei criteri di valutazione, ovvero:
“congruenza con l’oggetto specifico del progetto di ricerca”. Per questo
aspetto non contemplato dalla legge, si da un massimo di 8 punti. Quindi in
totale si danno sino a 12 punti (4+8) su 60 (ovvero ben il 20% del totale) per
due cose non previste dalla legge e, dunque, tecnicamente illegittime. Cosa
questa che, tra l’altro, cozza con i “principi enunciati dalla Carta Europea
dei Ricercatori” ai quale la Legge all’art. 2. si richiama esplicitamente. Tra
questi principi, come il CPU ha ricordato,
la Carta inserisce l’esigenza di evitare bandi che contengano progetti tanto
specifici da restringere eccessivamente il numero dei possibili partecipanti al
concorso.
Ora che
fare? Si tenga presente che sto scrivendo prima che gli atti
vengano pubblicati e dunque non conosco ufficialmente il nome del vincitore e
il punteggio finale assegnato ad ogni candidato (potrei, paradossalmente, anche
essere io). Il concorso in oggetto, così mi assicurano i miei amici avvocati,
sarebbe illegittimo e un eventuale ricorso al TAR lo annullerebbe quasi
sicuramente. Vi è però da precisare che un ricorso al TAR costa tra i 3000 e
5000 euro, anche se è nato un comitato, il Secs Team, che aiuta nella raccolta fondi e
le cui iniziative hanno portato all’annullamento negli ultimi mesi “di un concorso
da ricercatore in economia politica presso l’Università del Piemonte Orientale
e al differimento della
nomina del vincitore di un concorso in politica
economica presso l’Università dell’Insubria”.
Ne vale la
pena la pena allora? Vediamo cosa potrebbe succedere,
perché questo ci aiuta a capire perché il numero dei ricorsi è così basso e i
candidati spesso tendano ad “accettare” certe cose. Mettiamo che il TAR accolga
il ricorso e annulli così il concorso (non può infatti entrare nel merito e
dire che Tizio è più bravo di Caio, ma può evidenziare eventuali vizi di forma
o irregolarità nella procedura di valutazione) e dunque il concorso deve essere
rifatto (spesso con la stessa commissione). Ora, vien da sé che, data
l’arbitrarietà della commissione, le possibilità che vinca (a prescindere dai
titoli) il promotore del ricorso, sono scarse.
E poi,
anche qualora si vincesse un ricorso al TAR e poi
si vincesse il concorso, si tratterebbe pur sempre di un posto triennale
difficilmente rinnovabile senza la volontà di tutto il Dipartimento (promuovere
un ricorso significa farsi nemici e, dunque, rinunciare alla carriera). E su
questo, ahimè, si gioca. Insomma sarebbe una vittoria di Pirro perché ci si
troverebbe dopo 3 anni disoccupato. Questa è una delle tante storture dell’accademia
italiana che la riforma Gelmini ha acuito piuttosto che eliminare, aumentando
il precariato da una parte e il potere dei baroni dall’altra. Più aumentano i
precari, più aumenta il potere dei baroni visto che è da loro che dipende il
futuro dei precari, cosa che alimenta il nepotismo, male incurabile delle
Università italiane.
Sento
tuttavia come mio dovere civile e morale, ma anche
come membro della comunità scientifica (anche se non italiana), di denunciare
pubblicamente la cosa, sperando possa servire per i prossimi concorsi e mi
riservo il diritto di promuovere il ricorso come mezzo per riaffermare la
legalità e ristabilire un criterio di meritocrazia. Con l’arbitrarierà dei
giudici di gara anche un Cammeralle può perdere l’oro alle Olimpiadi, come in
realtà è stato a Londra 2012.
Non sono
così ingenuo da non prevedere le ritorsioni e i
rischi ai quali vado incontro con questa denuncia pubblica, ma so altrettanto
bene che l’Università italiana è un luogo dove, oltre ai baroni, vi sono ottimi
ed onesti professori (e io ne conosco personalmente tanti) che, pur tra mille
difficoltà, provano a lavorare per una Università migliore. Ma la vera riforma
dell’Università, prima che legislativa, deve essere culturale e di
costumi e passa anche dal saper prendere posizione contro certi malcostumi
tipici del mondo baronale italiano. “La mia protesta infiammata - mi si perdoni
la citazione di Zola presente fin nel titolo - non è che il grido della
mia anima”.
Massimo
Ragnedda
07 dicembre 2012
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