martedì 13 settembre 2011

Baroni e imprenditori


Già diffuso in anteprima dai suoi autori tramite mail circolari, l’Editoriale dell’ultimo numero di “Etnografia e Ricerca Qualitativa” (dal sintomatico titolo beckeriano Imprenditori morali) ha le carte in regola per attestarsi come un significativo e duraturo contributo al dibattito in corso. E questo non solo o non tanto per gli argomenti che lo sostanziano, che come diremo non sono particolarmente nuovi né dirimenti, quanto soprattutto perché i due colleghi che lo firmano – Alessandro Dal Lago e Pier Paolo Giglioli – conoscono molto bene i meccanismi accademici e soprattutto concorsuali, avendo partecipato per anni alla vita della nostra professione in posizioni che difficilmente potrebbero definirsi come svantaggiose, marginali o senza effetto (peraltro posizioni rigorosamente estranee a impegni di tipo associativo, ciò che rende il loro punto di vista particolarmente interessante). È, per così dire, un’importante testimonianza dall’interno del sistema sulle logiche (anche e soprattutto simboliche e ideologiche) del suo funzionamento più intimo e meno paludato, che offre preziosi spunti per quell’analisi sociologica del campo disciplinare che da qualche tempo stiamo conducendo, in modo più o meno esplicito e comunque al servizio di una iniziativa di riforma professionale, che è poi il vero oggetto sia dell’Editoriale che di questo nostro commento.
 
In sintesi, l’Editoriale presenta alcuni elementi di critica, spesso piccata e qua e là maliziosa, al dibattito in corso (un “curioso dibattito”, così lo si definisce sin dalle prime battute), e avanza al contempo una proposta – almeno in apparenza plausibile – di soluzione alle criticità delle procedure di reclutamento, che evidentemente anche i due colleghi riconoscono come problematiche pur ammettendone, se così si può dire, la “normalità sociologica”. Che anche Dal Lago e Giglioli abbiano ritenuto di dover prendere posizione sul dibattito in corso è un indicatore, uno dei tanti, di quanto questo dibattito stia accendendo gli animi e le menti di una comunità accademica che non si può certo dire si sia distinta recentemente per effervescenza o spirito dialettico. Che abbiano poi deciso di scolpire le loro prese di posizioni addirittura nell’Editoriale a stampa di una (loro) rivista, è ancora più significativo. Noi, che al dibattito in corso abbiamo creduto sin dalle prime ore dedicando a esso non poche energie, non possiamo dunque che sentirci gratificati. Tuttavia, per mettere in giusta luce gli argomenti e le tesi contenute in quel testo (che gli autori curiosamente almeno quanto cordialmente non ci hanno autorizzato a pubblicare in questo blog “di servizio”, ma che ci si può facilmente procurare), alcune osservazioni puntuali ci sembrano opportune – se non proprio necessarie.

Innanzitutto, ci pare sacrosanto ma anche piuttosto stucchevole ribadire per l’ennesima volta, e senza fare gli opportuni distinguo, che di “crisi della sociologia” si parla da decenni, se non dalle origini stesse della disciplina. Abbiamo più volte precisato – sul Forum Treccani e in questo blog, ma anche in mail collettive che sono ampiamente circolate tra giugno e luglio – che la crisi di cui discutiamo, di cui si dibatte almeno dall’aprile 2010, non è quella della sociologia tout court, ma è solo quella della sociologia italiana, e crisi non epistemologica ma istituzionale e professionale. Il fatto che voci sparute (due o tre al massimo, sulle decine che sono intervenute) abbiano insistito, almeno sino a qualche mese fa, sulla questione epistemologica invece che su quella professionale, dice assai poco sulla natura e la qualità del dibattito in corso. Puntare l’attenzione su quelle voci significa dunque produrre immagini distorte e fuorvianti del dibattito medesimo.

In secondo luogo, va decisamente qualificata l’interpretazione della discussione che si è svolta sul Forum Treccani e nelle altre sedi (tra cui questo blog e la “Rassegna Italiana di Sociologia”, curiosamente mai citata da Dal Lago e Giglioli). Contrariamente a quanto affermano gli autori dell’Editoriale, non si è mai trattato di un dibattito tutto costruito intorno a “«criteri etici» – obiettività, riconoscimento del merito e altri simili concetti che restano del tutto vaghi quando non s’incarnano in precisi e concreti meccanismi di premio e sanzione”. Basta leggere gli interventi di Paolo Volontè, di Matteo Bortolini e di Federico Neresini (tutti del 29/06/2011, quindi pubblicati in tempi utili per la stesura dell’Editoriale, scritto ci dicono i due autori ai primi di luglio) per rendersene conto. Anche molti degli interventi circolati in seguito – alcuni nel Forum Treccani, altri nella mailing list dei “140” e in questo blog (ricordiamo qui quelli di Roberta Sassatelli, Emanuela Mora, Maurizio Ambrosini, Mario Cardano, Giampietro Gobo, Luigi Pellizzoni, Anna Carola Freschi e altri sino al recentissimo di Bruno Cousin e Tommaso Vitale, passando anche per quelli di Giuseppe Sciortino e Antonio Chiesi che hanno insistito molto sulle virtù taumaturgiche dei requisiti minimi, soluzione forse non convincente e sociologicamente ingenua come si osserva nell’Editoriale, ma certo anche proposta concreta e distinta dall’invocazione di presunti “criteri etici”) – si sono mossi già da tempo precisamente nella direzione che Dal Lago e Giglioli raccomandano, e questo anche in vista del convegno organizzato per il 28 ottobre a Bologna proprio per confrontarsi su proposte operative. Il tema dell’etica professionale, quindi, è stato discusso tanto quanto quello dei “meccanismi” istituzionali di premio e sanzione volti a indirizzare, correggere e cambiare i comportamenti. Ci pare insomma che la gran parte degli argomenti critici sollevati dall’Editoriale abbia già trovato risposta nell’articolato dibattito degli ultimi mesi, cui hanno partecipato tra l’altro molti colleghi che francamente facciamo davvero fatica a identificare in una qualche omogenea “cricca” composta di “baroni pentiti” (felice etichetta questa, anche perché evoca immediatamente, quasi materializzandola, l’esistenza di baroni che pentiti non sono e non intendono esserlo) e dai loro “allievi cooptati”. Per accorgersene basta leggere le fonti con attenzione e obiettività, come dovrebbe fare ogni sociologo e in genere ogni serio studioso, riconoscendo la gran varietà di soggetti e di esperienze (e genealogie accademiche) che quelle fonti hanno appunto prodotto.

Anche su un altro punto l’Editoriale è costruito, ci sembra, su una lettura curiosamente selettiva se non proprio grossolana del dibattito avviato mesi or sono. Citiamo testualmente: “Nel dibattito si mette sotto accusa, in particolare, il sistema delle tre componenti (o partiti accademici) che da decenni governano il reclutamento dei sociologi universitari, tra spartizioni, accordi sotto banco, conflitti di ogni genere e così via. Benissimo. Ma non abbiamo trovato nessuna spiegazione sociologica della formazione di tali componenti e tanto meno proposte per il loro superamento”. Non vogliamo tediare con citazioni puntuali, per cui invitiamo tutti a rileggere gli interventi apparsi sul Forum Treccani, su questo blog e soprattutto sulla “Rassegna Italiana di Sociologia”, che a questo argomento ha dedicato quasi un intero numero oltre che un seminario. Vi si troveranno diverse spiegazioni sociologiche circa la nascita e la persistenza delle “componenti” – che nessun sistema elettorale in quanto tale produce, e che non si ritrovano affatto in tutte le discipline che condividono il meccanismo istituzionale vigente in Italia e basato su concorso “pubblico” (e non “nazionale”, a differenza di ciò che impropriamente i nostri scrivono) e commissioni giudicatrici elette, come l’Editoriale invece con molta sicumera sostiene – evidentemente scambiando le “componenti” per generiche e informali cliques o cordate accademiche, queste sì diffuse in tutto il mondo ma assai meno organizzate e legittimate, persino istituzionalizzate, delle nostre “componenti” (rimandiamo anche al recente post di Cousin e Vitale sul punto). Forse sfugge ai nostri l’importanza sociologica della istituzionalizzazione e legittimazione? O quella della organizzazione? Ci sembra improbabile. Eppure così sembrerebbe da una lettura attenta dell’Editoriale. Inoltre, sempre nel Forum, sulla RIS e in questo blog si troveranno diverse proposte operative per il superamento delle “componenti” stesse. Anche qui, una lettura un po’ più attenta, sensibile a elementari distinzioni sociologiche (cliques informali vs. consorterie o partiti organizzati) e, forse, anche meno pregiudiziale, avrebbe giovato alla qualità e solidità degli argomenti.

Ancora più curiosa, però, è la tesi conclusiva dell’Editoriale, quella secondo cui il dibattito sarebbe basato su un pericoloso mix di richiesta di maggior centralizzazione e rivendicazione generazionale. Tesi curiosa, perché se c’è un elemento che ha caratterizzato il dibattito svoltosi finora, questo è proprio la voluta assenza di una posizione precostituita. E curiosa perché su entrambi i punti – organizzazione e responsabilità generazionale – si sono registrate in realtà posizioni disparate, anche da parte di chi quel dibattito ha maggiormente animato. E questo al netto di un dato incontrovertibile: che comunque, di questa situazione, non possono essere responsabili coloro che non hanno attualmente – e, soprattutto, non hanno avuto negli ultimi trent’anni – posizioni di potere tali da incidere sullo stato della disciplina e della professione. L’assenza di una posizione unitaria non equivale, vogliamo poi precisare, ad assenza di idee, ma rispecchia quella che, sin dagli inizi, è stata una chiara indicazione di metodo, di cui anche questo blog è testimonianza. Ci pare, in effetti, che nell’Editoriale si confondano le ragioni del pluralismo e del dialogo con quelle della retorica più o meno interessata se non ingenua: il fatto che non ci sia sul piatto un unico progetto di riforma a cui si chiede di aderire non significa che non ci siano proposte concrete in vista della costruzione futura di quel progetto. Significa solo che chi si sta impegnando nel dibattito ha optato per una strategia di dialogo e confronto trasparente tra pari, in vista di una definizione consensuale e plurale del programma finale di intervento (verrebbe da dire che questo metodo gli autori dell’Editoriale hanno volutamente negato, decidendo di intervenire in una sede diversa da quella in cui il dibattito si è sin qui svolto, e usando un mezzo che per sua natura non favorisce il dialogo e lo scambio, e neppure la tempestività di pubblicazione). Quanto sia poco proficuo se non addirittura controproducente – in queste condizioni – intraprendere strade alternative e parallele, invece che contribuire alla costruzione collettiva e dialogica di un progetto comune, ci pare evidente.

Detto questo, in astratto non possiamo non sentirci in sintonia con la proposta avanzata. E chi non lo vorrebbe un sistema di “chiamate dirette” basate sui bisogni didattici/scientifici dei singoli dipartimenti, regolato da un sistema serio di premi/punizioni per chi seleziona bene/male? Il problema – perché il problema c’è, purtroppo, e stupisce che non lo si noti – è che un sistema del genere non solo presuppone comunque un meccanismo di preselezione “pubblico” dei “chiamabili” (e a livello nazionale, secondo la recente riforma) ma può funzionare bene a livello sia nazionale sia locale (quello in cui si decide la “chiamata diretta”) solo laddove esista anche quella forte deontologia professionale che Dal Lago e Giglioli guardano con un certo disdegno – forse considerandola un retaggio di mentalità piccolo borghese, o qualcosa del genere. Come si fa, infatti, a stabilire se un dato “chiamato” soddisfa i bisogni didattici/scientifici sottesi alla sua chiamata? Chi lo decide? Sulla base di quali criteri? E chi stabilisce quei criteri e vigila sul loro rispetto? Chi decide sulla bontà o meno della chiamata diretta? Ci sembra del tutto evidente che senza un serio e condiviso richiamo a quei “valori” che gli autori dell’Editoriale trattano con sufficienza – merito scientifico, serietà professionale, reputazione, e così via – e senza una seria disponibilità a discutere collegialmente e in modo trasparente di questi valori e della loro applicazione al caso concreto, non si va da nessuna parte perché diventa impossibile definire quel sistema di “precisi e concreti meccanismi di premio e sanzione” invocato nell’Editoriale: se non si stabilisce una distinzione fra ciò che è professionalmente “giusto” (o “buono”) e ciò che è professionalmente “sbagliato” (o “cattivo”), e se non si raggiunge un consenso su questa distinzione, com’è possibile premiare o punire persone e/o istituzioni? Soprattutto, senza una solida base deontologica – senza un’etica professionale al cui rispetto siano legati reputazione e “onore” – e, elemento cruciale, senza qualche organismo professionale sufficientemente autonomo e forte da farla rispettare, non si vede come le ragioni locali di una componente o, nell’ipotesi avanzata, di un dipartimento (quando non di una cricca interna al dipartimento, situazione oggi assai più comune, come ben sanno i nostri) possano contemperarsi con quelle sovralocali, e ben più generali, della professione/disciplina nel suo complesso. Perché è questo il nocciolo della questione: evitare che a una posizione professionale siano chiamati (cooptati, selezionati, ecc. più o meno direttamente) soggetti che, pur “servendo” alla parte (e si può “servire” in molti modi, come è noto, e non tutti equivalenti dal punto di vista della “comunità scientifica”), sono invece di scarso o nullo servizio per il tutto, cioè per la disciplina nel suo complesso, quando non risultano addirittura dannosi – per la sua reputazione, per la sua immagine, per la sua stessa sopravvivenza come comunità scientifica.

Per finire, ci siano permesse due annotazioni di colore. La prima riguarda l’affermazione di Dal Lago e Giglioli secondo la quale il sistema di accordi spartitori che ha dominato i concorsi degli ultimi decenni dipenderebbe non dalla “bassa qualità umana o [da] Dna baronale” degli “ordinari anziani” che hanno generato e perpetuato tale sistema, bensì dalla “logica istituzionale dei meccanismi concorsuali”. Ora, che le logiche istituzionali creino vincoli all’azione è talmente lapalissiano che è quasi superfluo ricordarlo. Quando però si va oltre tale ovvietà e si afferma che la responsabilità di certe nefandezze concorsuali deve essere attribuita interamente (o prevalentemente) non ai commissari che le hanno commesse – e quindi, senza scomodare la genetica, alle loro condotte pratiche e al loro senso della professione e della giustizia così come questi si rivelano nelle loro scelte in situ – ma alla “logica istituzionale dei meccanismi concorsuali”, allora ci sembra che (al netto di una lettura maliziosa che ci risparmiamo) si scada in un certo sociologismo d’antan che credevamo francamente superato. Ed è particolarmente curioso che a scivolare in questo sociologismo vecchia maniera siano proprio due storici seguaci locali di Goffman, evidentemente dimentichi in questo loro testo di una delle principali lezioni del loro maestro intellettuale, e cioè che anche nelle situazioni più estreme l'attore possiede sempre un certa libertà di interpretazione e un suo spazio di negoziazione. Se questo vale per manicomi e carceri, ci pare che a fortiori dovrebbe valere per dei semplici concorsi (a meno di voler sostenere, implicitamente, che i concorsi governati dal “sistema delle componenti” configurino istituzioni ancora più totali di carceri e manicomi! Il che forse non è lontano dal vero, ma sarebbe anche prova inoppugnabile della gravità della situazione).

In secondo luogo, che proprio su una rivista come ERQ si neghi o si minimizzi l’importanza della dimensione etica, normativa, valoriale, e quindi culturale e simbolica, nei processi di riforma delle istituzioni desta quantomeno sorpresa, se non sospetto (la stessa interpretazione dell’idea di “imprenditoria morale” che viene sposata e spacciata come autentica nell’Editoriale è in realtà alquanto selettiva e biased, e non rende giustizia alla ben più sofisticata e sfaccettata lettura che ne fa Becker nel suo classico studio). Che questa negazione provenga poi da ascoltati rappresentanti della nostrana sociologia culturale sorprende, e rende sospetti, ancor di più. Dopotutto, se c’è un insegnamento che possiamo ricavare dalla sociologia culturale (Weber incluso, e Durkheim certo con lui) è proprio questo: il richiamo all’impegno etico e le correlate iniziative d’imprenditoria morale non possono essere riduttivamente interpretati a priori come vana retorica o come interessata manipolazione ideologica, ma vanno sociologicamente riconosciuti come forze significative che, immateriali ma sempre sostenute da umani portatori e dalle loro pratiche mondane, dirigono e governano la vita sociale – soprattutto in momenti di crisi. Che i nostri mettano beatamente tra parentesi questo insegnamento negando spudoratamente ogni valore sociologico alla dimensione etica è perciò davvero curioso. Specie quando si confronti questa loro negazione con l’invocazione, poche righe più avanti, della classica giustificazione baronale (“quelli che ho selezionato o promosso erano i migliori”) a spiegazione sociologica delle buone intenzioni del barone medesimo, vincolato dal meccanismo istituzionale ma comunque ordinariamente probo e onesto, vittima innocente ma certo non responsabile artefice dei mali concorsuali. Ciò che dunque vale come prova di ingenuità sociologica per chi sta animando il dibattito (l’invocazione di “criteri etici”) dovrebbe però valere come (parte della) spiegazione sociologicamente raffinata del funzionamento del sistema le cui criticità sono oggetto del dibattito medesimo. Una contraddizione che sta al cuore, ci sembra, dell’intero Editoriale, sin dalla scelta del titolo.

Filippo Barbera, Università di Torino  
Maurizio Pisati, Universtà di Milano-Bicocca
Marco Santoro, Università di Bologna


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